USA, cosa può azzoppare la soft landing

I dati macroeconomici negli ultimi mesi sembrano indicarla come il finale più logico per l’economia statunitense. Stiamo parlando della cosiddetta soft landing, vale a dire un planaggio dolce dell’economia USA dopo il turbolento viaggio nella fase di politica monetaria restrittiva della FED; pochi effetti sul mercato del lavoro, consumi resilienti e crescita solo rallentata.

“There’s a path to soft landing” ha dichiarato settimana scorsa il governatore della banca centrale USA, annunciando una pausa sulla stretta monetaria e snocciolando stime al rialzo per la crescita sia del 2023 che del 2024. Parole che non hanno convinto tutti, con gli analisti che mettono ancora sul piatto un paio di scenari: l’arrivo di una fase recessiva e quella iper ottimistica di una no landing (vale a dire l’assenza di un rallentamento ed anzi l’inizio di un’accelerazione della crescita).

Al momento l’ipotesi di un atterraggio morbido sembra essere quello che in gergo tecnico si chiama scenario di base. E partendo da qui possiamo allora chiederci cosa possa intervenire da qui ai prossimi mesi per mandare all’aria tutto.

La sigla UAW è la portabandiera del primo bastone pronto ad incastrarsi tra le ruote dell’economia statunitense da qui ai prossimi mesi. Il tema è quello delle vertenze sindacali, e proprio la UAW (il sindacato dei lavoratori del settore automotive) ha lanciato il sasso nelle scorse settimane, proclamando uno sciopero negli stabilimenti di colossi come Ford, GM, Stellantis. Uno sciopero che ha coinvolto inizialmente 13 mila lavoratori e che nelle prossime settimane potrebbe allargarsi dagli stabilimenti di assemblaggio a quelli che distribuiscono le componenti. La rivendicazione di un aumento salariale, in tempi di inflazione ancora sostenuta, potrebbe espandersi anche in altri settori e l’effetto finale sarebbe da un lato un ovvio rallentamento della produzione, dall’altro un aumento dei prezzi.

Il secondo bastone puntato verso le solite ruote della crescita USA è di durissimo materiale politico. L’avvicinarsi della fine dell’anno riporta a galla l’oramai cronica difficoltà del congresso americano di mettersi d’accordo sul budget di spesa e sulla possibilità di sforare il limite di debito. La questione è di scottante attualità, repubblicani (maggioranza risicata alla camera) e democratici (maggioranza risicata al senato) stentano – eufemismo – a trovare un accordo sul testo da approvare entro il 30 settembre. Il rischio è di ritrovarsi ad inizio del nuovo mese con uffici pubblici chiusi, stipendi e pensioni bloccate. La memoria corre al dicembre del 2018, quando un congresso spaccato come l’attuale, fece passare cinque settimane prima di trovare la quadra. In quell’occasione l’effetto fu un calo dello 0.1% di PIL nell’ultimo trimestre 2018 e di -0.2% nei primi tre mesi del 2019.

Oltre ai due bastoni sopra citati, occorre ricordare che la strada da percorrere presenta anche diverse buche da evitare. Una è senza dubbio la questione caro-carburante. L’aumento dei prezzi del petrolio – che strizza l’occhio a quota 100 dollari al barile – preoccupa i consumatori statunitensi, e lo ricordano i sondaggi sulla fiducia usciti nelle ultime settimane. I consumi privati fino ad ora molto resilienti potrebbero così subire un colpo non di poco conto. Altra buca, meno nota ma non meno profonda, è rappresentata da una data: il primo ottobre prossimo. E’ la data nella quale le famiglie statunitensi torneranno a pagare le rate dei prestiti federali per lo studio dei figli, un onere che si stima (dati Wells Fargo, fonte WSJ) possa togliere dalla disponibilità finanziaria dei consumatori USA circa 100 miliardi di dollari in un anno.

Saranno mesi intensi e l’affaccio sulle elezioni presidenziali non aiuterà certo a rendere le cose più semplici. Per la soft landing USA le probabiltà rimangono alte ma in un periodo come questo in pochi rischierebbero la mano sul fuoco.

Foto di haram Oh

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