La nuova normalità del debito pubblico elevato

Il debito pubblico elevato potrebbe diventare la nuova normalità, almeno per le grandi economie avanzate. Lo suggeriscono Serkan Arslanalp (FMI) e Barry Eichengreen (Berkeley) in un loro studio.

Secondo le ultime stime del Fondo Monetario Internazionale, nel 2025 ben 5 delle 7 principali economie mondiali avranno un rapporto Debito/PIL superiore al 100%. I dati UNCTAD ci ricordano che nel 2022 il totale globale di debito pubblico emesso ha toccato i 92 trilioni di dollari. La posizione è delicata soprattutto per i paesi emergenti che contribuiscono al 30% del debito pubblico mondiale e le cui emissioni sono sempre più spesso denominate in valuta estera. Il loro rapporto debito/PIL è arrivato mediamente al 60% dal 25% di 10 anni fa.

Si tratta di numeri che non lasciano indifferenti, specie in un periodo storico come questo nel quale la prospettiva sembra essere quella di avere tassi di interesse alti per un periodo relativamente lungo, e la crescita economica globale non può di certo definirsi brillante.

Come riusciremo a gestire questa enorme montagna di debito? Una domanda a cui Serkan Arslanalp (FMI) e Barry Eichengreen (Berkeley) hanno cercato di dare una risposta presentando un loro studio in occasione del simposio di Jackson Hole. E se dovessimo riassumere in pochissime parole la loro risposta potremmo chiosare con un: “dovremo abituarci”.

Un debito pubblico elevato non è una novità per l’economia mondiale. La Gran Bretagna negli anni 20 del diciannovesimo secolo tocco un rapporto debito/PIl del 200%, e la Francia dopo la guerra contro la Prussia (1870) si ritrovò con un debito che sfiorava il 100% del prodotto interno lordo. Come riuscirono queste due grandi economie a rientrare da queste situazioni “borderline”. Arslanalp e Eichengreen ci ricordano che i governi di Parigi e Londra, in quei casi, riuscirono a mettere in fila diversi anni con un avanzo primario (entrate superiori alle spese). La Gran Bretagna, ad esempio, nel periodo 1822-1913, ridusse del 180% il proprio debito/PIL proprio grazie ad una politica di bilancio improntata all’austerità.

Ma lo schema non sembra per nulla replicabile. Lo scenario macroeconomico è totalmente cambiato, basti solo pensare a cos’era – se c’era – il welfare nella Francia del 1800 e confrontarlo con la situazione attuale. L’invecchiamento della popolazione è un altro elemento che fa indurre gli autori a pensare che produrre avanzi primari consistenti non sembra una via percorribile.

Come fare allora? Ci sarebbe quella famosa regola aritmetica: se il tasso di crescita di un’economia è superiore al tasso di interesse reale (quindi al netto dell’inflazione) il rapporto debito/PIL scende. La prova storica di questa formula ce l’hanno fornita gli Stati Uniti nel dopo seconda guerra mondiale, quando dal 106% di debito/PIL riuscirono a scendere proprio grazie ad una crescita superiore al tasso di interesse reale. Vista l’alta inflazione attuale ed i tassi reali che ancora oscillano attorno allo zero potrebbe sembrare una strada percorribile, ma Arslanalp e Eichengreen smorzano gli entusiami ricordando che l’inflazione, perchè la formula funzioni, deve essere inaspettata, altrimenti i tassi di interesse nominali, dovendo necessariamente adeguarsi, aumentano di pari passo. Non sembra proprio il caso dell’attuale spinta inflazionistica e, soprattutto, il tasso di crescita dell’economia mondiale si è notevolmente smorzato.

A questo punto, suggeriscono gli autori, meglio pensare ad una convivenza con elevati livelli di debito pubblico e suddividere il problema in due. Il debito pubblico delle economie più avanzate da un lato, quello delle economie emergenti dall’altro. Se per le prime la presenza di una cospicua domanda di debito ne potrebbe consentire la gestione, a patto di non scassare ulteriormente i conti pubblici, per le economie emergenti non dovrebbe essere un tabù parlare di ristrutturazione.

Illustrazione di Rilson S. Avelar

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