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Ma è proprio finita l’era dei tassi a zero?

L’opinione condivisa tra gli economisti è che l’era dei tassi a zero o comunque molto bassi non possa tornare. C’è però chi la pensa diversamente e tira in ballo due elementi: l’alto indebitamento ed il premio per il rischio.

Qualche giorno fa parlavamo dell’ultimo dot-plot della FED, osservando come la maggioranza dei governatori che compongono il board della banca centrale statunitense si attenda un tasso di interesse neutrale tra il 2.5% ed il 3%, decisamente su livelli più elevati rispetto al pre-pandemia. E chi ha buona memoria ricorderà di certo molti articoli su testate finanziarie importanti incentrati su un concetto ben preciso: l’era dei tassi vicini allo zero può dirsi sostanzialmente finita.

L’opinione comune, infatti, è che quel periodo fatto di inflazione anemica e tassi reali negativi faccia parte della storia e che i nuovi equilibri mondiali abbiano vistosamente rallentato le spinte deflattive “secolari” – l’innovazione tecnologica e l’invecchiamento della popolazione mondiale – che gli analisti consideravano i motori di questo trend.

Ma il dibattito economico, si sa, è terribilmente interessante perchè idee e punti di vista contrapposti non mancano mai, ed in ognuno di essi c’è sempre qualcosa da salvare per farsi un’idea la più completa possibile. Così Ricardo Caballero, professore del MIT, ci suggerirci che le cose non sono così lineari come sembrano e che ci sono due fattori in grado di far tornare il tasso di interesse neutrale, o naturale, su livelli decisamente più bassi di quelli raggiunti in questi ultimi anni.

Nella sua riflessione, pubblicata sul sito del CEPR, Caballero rimette sotto i riflettori due elementi: il tasso di indebitamento pubblico ed il premio per il rischio. Una massa sempre più grande di debito pubblico si trasforma in vincoli sempre maggiori per la spesa pubblica, e di conseguenza il sostegno della politica fiscale alla crescita della domanda diventa sempre meno efficace. Per compensare questo crescente squilibrio, continua l’autore, sarà necessario agire sullo stimolo monetario e quindi, in definitiva, abbassare i tassi di interesse.

L’altro elemento su cui occorrerebbe riflettere è l’attuale livello del premio per il rischio, vale a dire la differenza tra il rendimento derivante da investimenti a rischio e quello proveniente da investimenti “sicuri”. Dopo aver vissuto un lungo periodo nel quale questo premio per il rischio si è mantenuto elevato, l’aumento sostenuto dei tassi di interesse lo ha drasticamente eroso. Ma un livello così basso di risk premium non è certamente sostenibile nel medio termine. Anche supponendo che i mercati finanziari possano brillare a lungo, è molto più ragionevole pensare che il riequilibrio del premio per il rischio avverrà con la riduzione dei rendimenti “sicuri”, quindi abbassando i tassi di interesse.

Dei due fattori analizzati da Caballero quello che sembra maggiormente in grado di trascinare verso il basso il tasso di interesse neutrale, e che ci convince maggiormente, è il debito pubblico. Le conseguenze sulle politiche fiscali dei paesi ad alto indebitamento le stiamo vedendo in questi mesi nel nostro paese ma anche in contesti meno abituati a maneggiare livelli di debito elevato come Germania e Francia. Quando la domanda aggregata comincia a soffrire e le risorse sono contingentate, i telefoni dei governatori delle banche centrali cominciano a squillare insistentemente.

Illustrazione di Gerd Altmann

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