Un recente studio mostra come un intervento anticipato sui tassi di interesse da parte della FED non avrebbe ottenuto risultati molto differenti, peggiorando altri paramentri macroeconomici.
Dimenticata in un angolo mentre il mondo dell’economia disegnava scenari deflazionistici di lungo periodo, l’inflazione è tornata protagonista e potrebbe rimanerlo ancora a lungo. A segnali di normalizzazione, più o meno evidenti, si contrappongono fattori capaci di mantenere vivo il fuoco della crescita dei prezzi al consumo per i mesi a venire. Il tutto si trasforma in un andamento poco lineare e non sempre aspettato che mette in una posizione scomoda chi nella sostenibilità dei prezzi ha la sua ragion d’essere: le banche centrali.
Se nell’Eurozona anche i più falchi tra i governatori sembrano oramai rassegnati ad un primo taglio dei tassi da parte della BCE entro l’estate, dall’altra parte dell’oceano si assiste ad una vera e propria telenovela, con esponenti della FED che rilanciano a giorni alterni ipotesi di tagli e frenate degne di un pilota di Formula Uno. Le conseguenze di una comunicazione un po’ troppo “variegata” si notano sui mercati finanziari ma anche nell’evoluzione delle aspettative di inflazione e nell’andamento della fiducia degli operatori economici.
La FED è finita da un po’ di tempo sul banco degli imputati. E di certo l’essere nel bel mezzo di una complicata e cruciale campagna elettorale non aiuta a rasserenare gli animi e a mantenere la lucidità di giudizio.
Una delle accuse che viene mossa alla banca centrale statunitense è quella di aver atteso troppo prima di iniziare a rialzare i tassi. Quell’inflazione transitoria lasciata libera di pascolare troppo a lungo, sostengono gli accusatori, si è nei fatti trasformata in qualcosa di cronico, modificando le aspettative dei consumatori e rendendo più complesso il ritorno al target.
In un recentissimo working paper, David Reifschneider, economista con un lungo passato nella FED, ha messo alla prova la tesi accusatoria. Se la FED avesse agito prima avrebbe ottenuto risultati migliori? La risposta che emerge dai modelli utilizzati da Reifschneider tende ad essere negativa. La motivazione sembra risiedere nella particolare configurazione di due fattori chiave: il rapporto inflazione/disoccupazione e le aspettative di inflazione dei consumatori. La piattezza del primo (che altro non è se non la cara vecchia curva di Phillips) e la lenta risposta delle seconde avrebbero anestetizzato una mossa anticipata da parte della banca centrale, riducendone gli effetti sui prezzi e costringendo ad una forte contrazione della domanda e ad un aumento della disoccupazione. In pratica più danni che altro.
Foto di Adam Fagen