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L’inflazione e il “caro figli” che azzoppa la crescita

I dati ci dicono che nel 2023 l’inflazione relativa alle spese per accudire i figli in età prescolare è salita del 5%, con punte in alcuni paesi oltre il 10%. Un problema che riduce l’occupazione femminile e toglie benzina alla crescita.

Espressioni come “inverno demografico” sono oramai diventate di uso comune per descrivere un trend che colpisce in particolare le economie avanzate occidentali ma non solo. Il trend in questione è quello che vede progressivamente calare il numero dei nuovi nati, con conseguente innalzamento dell’età media della popolazione. Da molti anni la politica annuncia di volersi occupare della questione, dicendosi pronta ad aiutare le famiglie, ad incentivare le nascite e via discorrendo. Sul fronte economico, la realtà dei fatti, però, ci dice altro: far fronte alle spese per la cura di un figlio sta diventando sempre più problematico.

La sfuriata inflattiva post pandemia ha di fatto reso ancora più allarmante una situazione che ha ripercussioni sul mondo del lavoro ed in definitiva anche sulle prospettive economiche di un paese. Secondo uno studio condotto dalla società ECA International la spesa media per accudire un bambino in età pre-scolare è salita nel 2023 del 5% su base annua. Variazioni superiori al 10% si sono registrate in molti paesi europei, come Germania e Regno Unito, mentre negli USA la crescita di questi costi è stata pari al 9% annuo. In media un bambino in età pre-scolare costa ai genitori 13 mila dollari all’anno. In termini di percentuale sul salario, la media dei paesi OECD si colloca all’11% con punte che superano anche il 30%; come negli USA, per esempio.

La pressione di questi costi sui bilanci familiari finisce molto spesso per pesare sulle spalle delle donne, ancora troppo spesso uniche responsabili della cura della prole. Un peso che le costringe il più delle volte a lasciare il posto di lavoro o a ripiegare su occupazioni part-time. E la ridotta partecipazione femminile al mercato del lavoro non fa altro che ridurre la capacità di crescita di un paese e con essa la possibilità da parte dei governi di finanziare i propri sistema di welfare. Una ricerca condotta dall’associazione no-profit americana National Partnership for Women & Families ha stimato in 237 miliardi di dollari la perdita economica dovuta all’allontanamento forzato delle donne dal mercato del lavoro per seguire i propri figli. Cifre simili sono stimate anche per l’Europa, mentre a livello globale la disuguaglianza di accesso al mercato del lavoro tra uomo e donna costa 10 punti di PIL. Colmarla, o quantomeno ridurla, significherebbe non solo aumentare la ricchezza prodotta e ridurre la povertà (come ricorda la World Bank), ma anche aumentare le risorse disponibili per i governi.

In definitiva, non si tratta di render cool la maternità come qualche esponente politico nostrano maldestramente suggeriva qualche tempo fa. Si tratta, invece, di rimuovere un ostacolo sulla strada della libera scelta di essere madri. Ostacolo che se rimosso è in grado di generare ricchezza in grado di ripagare, con gli interessi, lo sforzo iniziale per le casse pubbliche.

Foto di Alicja

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