Fino a quando? La FED, i tassi ed i mercati finanziari

Sui mercati finanziari inizia a rimbalzare una domanda: fino a quando la FED continuerà ad alzare i tassi di interesse. Come al solito gli analisti si dividono sulla possibile risposta.

Nei giorni scorsi abbiamo assistito ad un robusto tentativo di recupero da parte dei mercati azionario. Recupero accompagnato da un altrettanto sostenuto calo dei rendimenti sull’obbligazionario. Cosa ha guidato questa improvvisa “euforia”? Secondo molti analisti sui mercati finanziari si è fatta largo una nuova aspettativa: che la FED sia vicina al punto di svolta sui tassi di interesse, al pivot come dicono gli inglesi. In altre parole che la politica restrittiva della banca centrale statunitense abbia i mesi contati.

Come spesso capita, anche su questo tema, vale a dire fino a quando la FED continuerà ad alzare i tassi, si sono create due “fazioni”, da un lato chi appoggia l’idea diffusasi sui mercati finanziari e dall’altro chi predica ancora molta calma. I primi poggiano la loro convinzione su alcuni dati macro che indicherebbero un rallentamento sempre più marcato della crescita economica statunitense. I secondi riportano le tante dichiarazioni dei governatori FED e guardano al massiccio accumulo di risparmi che ancora caratterizza i bilanci dei consumatori USA.

Tra chi pensa che la fine della fase restrittiva debba terminare a breve c’è Ed Yardeni. Per il “papà” del Fed Model, nel mese di novembre i nodi potrebbero venire al pettine, con la banca centrale che di fronte al peggioramento della congiuntura, e con un dollaro forte che cominicia a creare problemi, inizierebbe a pensare ad un cambio di priorità. Ossia evitare che la frenata indotta dalla minor liquidità nel sistema porti ad una recessione severa e ad una potenziale crisi finanziaria. E che la ripresa economica si stia indebolendo lo dimostrerebbero – dicono i sostenitori del “fermati presto FED” – gli ultimi dati macro. A partire dai tassi di inflazione che nel mese di settembre hanno mostrato segnali di raffreddamento. E poi i sondaggi PMI, con quello curato da S&P global che colloca il settore privato statunitense in zona contrazione. E anche sul mercato del lavoro, proseguono, le cose sembrano cambiare. Le offerte di lavoro sono scese del 10% nel mese di agosto rispetto al mese precedente, riducendo anche il rapporto tra offerte e disoccupati (che sembra essere uno dei parametri più monitorati dalla FED).

Se queste tendenze fossero confermate anche per il mese di settembre e per i successivi, allora anche le prospettive dell’economia nei prossimi mesi potrebbero modificarsi. Ragionando in termini di NAIRU, ossia del livello di disoccupazione neutro rispetto all’inflazione, le proiezioni che lo vedevano sopra il 5% verrebbero riviste al ribasso, attorno al 4,5%. In altri termini questo vorrebbe dire che una soft landing per l’economia USA sarebbe ancora possibile.

Alcuni osservano, inoltre, che i membri del board della banca centrale statunitense citano sempre più spesso le implicazioni di un dollaro forte (frutto “avvelenato” del rialzo dei tassi) sull’economia globale. Segnali che per qualcuno sottointendono una nuova fase per il board, meno ossessionata dall’inflazione e più propensa a guardarsi attorno per indagare gli effetti collaterali della propria politica.

Ma come detto sul tema c’è chi la pensa in maniera molto differente e continua ad immaginare una FED che rialza i tassi ancora per molto tempo, con un’inflazione tutto fuorchè indebolita. Del resto gli ultimi numeri sui prezzi al consumo indicano sì una riduzione, ma dovuta alla parte più volatile del paniere. L’indice core dei prezzi PCE (il parametro di riferimento per la FED) continua a salire e si trova ora (riferimento di agosto) quasi tre punti sopra il target del 2%. Come ricordava qualche giorno fa l’Economist, il grande generatore dell’inflazione statunitense continua a funzionare. Una larga fetta degli aiuti statali definiti dal piano Biden dell’anno scorso, infatti, devono ancora essere distribuiti (e la crescita dei redditi personali anche nel mese di agosto lo conferma). I risparmi delle famiglie americane superano i livelli pre-pandemia di 2 trilioni di dollari, mentre le aziende possono contare su liquidità aggiuntiva che sfiora i 3 trilioni di dollari con livelli di profitto che, al secondo trimestre del 2022, equivalevano al 12% del PIL. Numeri che significano una sola cosa: gli operatori economici hanno mezzi per sopportare il rialzo di prezzi e di salari ancora per un bel po’ di tempo.

E se chi ritiene prossima la fine della fase restrittiva guarda anche ai dati del mercato del lavoro, chi più cautamente ritiene che i tempi non siano ancora maturi per il “pivot” ricorda come il tasso di disoccupazione sia ancora sui minimi storici e come l’andamento delle richieste di sussidi di disoccupazione continui ad indicare un mercato del lavoro bollente; senza contare che il dato mensile sulle offerte di lavoro è di per sé un dato altamente volatile.

Alla fine della fiera, fino a quando la FED alzerà i tassi? Esistono valide motivazioni in entrambe le opinioni esposte velocemente qui sopra. L’impressione è che la soluzione più verosimile stia, come al solito, a metà strada. La banca centrale statunitense continuerà a procedere a muso duro ancora per tutto il 2022, scontrandosi con i mercati finanziari (volatilità!), ed impostando la propria comunicazione in modo tale da far credere che il 2023 non inizierà in maniera tanto differente (Mary Daly, proprio ieri). Al tempo stesso, però, dalle parti di Eccles Building si monitorerà attentamente ogni minimo segnale di cedimento del mercato del lavoro, ben sapendo che il nodo – come ricordava qualche giorno fa Cameron Dawson (NewEdge Wealth) a Bloomberg TV – non è tanto il raggiungimento del picco dei tassi di interesse, ma la durata della permanenza su quel picco a fare la differenza. E se fosse lunga potrebbe fare molto male all’economia ed al sistema finanziario.

Foto di Eduin Escobar

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