Il prezzo del petrolio continua a salire ma sul mercato dei future si continua a osservare il fenomeno della backwardation.
Un barile di petrolio oggi è più costoso di un barile di petrolio tra 6 mesi. Il differenziale di prezzo tra le due scadenze più ravvicinate dei contratti future sul Brent è salito dagli 0,41 dollari/barile di inizio anno a 1,45 dollar/barile nei giorni scorsi. Sui mercati finanziari questo fenomeno è noto come backwardation e per alcuni analisti, come ad esempio queli di Citi, è il segnale che per i prezzi del petrolio il trend futuro potrebbe essere decrescente. In realtà le cose sono un po’ più complesse, ma qualche indizio che il 2022 possa essere un anno volatile per il costo del barile c’è.
Sul fronte della domanda la situazione si mantiene calda. Nel piccolo paesino di Cushing, in Oklahoma, lo schieramento di serbatoi che si distende nella campagna può contenere fino a quasi 77 milioni di barili di petrolio, praticamente un quarto dell’intera capacità di stoccaggio degli USA. Ad oggi le stime ufficiali parlano di 30 milioni di barili rimasti “in magazzino” e l’emorragia continua. Se guardiamo alla storia, nel 2018, quando il prezzo del greggio tocco i 100 dollari, a Cushing rimanevano 25 milioni di barili stoccati; non siamo lontanissimi.
Sul fronte dell’offerta le cose non migliorano. L’OPEC+ non si schioda dall’aumento di 400 mila barili al giorno previsto per marzo, ma guardando i dati della produzione effettiva si nota che il cartello sta faticando a mantenere fede anche agli aumenti di estrazione precedentemente promessi.
Così, nel più classico degli incroci tra domanda (tanta) ed offerta (limitata), i prezzi salgono. Il WTI ha superato quota 90 dollari, massimo a sette anni, mettendo a segno un guadagno di quattro punti percentuali solo settimana scorsa. Ma quindi la backwardation?
Premesso che la relazione del petrolio con gli eventi macroeconomici rende il valore dei contratti future molto approssimativo nel descrivere il possibile percorso dei prezzi da qui a fine anno; e premesso che storicamente la correlazione fra la presenza di una backwardation ed un calo dei prezzi del petrolio è molto debole. Premesso tutto questo, non si può però non tenere conto di due aspetti che da qui ai prossimi mesi potrebbero incidere sul valore del greggio.
In primis la domanda. Iperstimolata nell’ultimo anno e mezzo, potrebbe risentire del perdurante stato di inflazione sostenuta. Le mosse delle banche centrali potrebbero a loro volta indurre ad una riduzione della domanda di consumo. Il secondo aspetto, forse quello principale anche se più controverso, è relativo al possibile ritorno in grande stile dei produttori di shale oil statunitensi. L’avvertimento arriva da ConocoPhillips ed è scattato subito dopo l’annuncio da parte di due colossi come Exxon e Chevron di aumentare la capacità estrattiva nel Bacino Permiano. Uno sforzo che dovrebbe aumentare di 900 mila barili/giorno la produzione di petrolio da scisto già nel 2022; con quella del 2023 che potrebbe superare di molto i 12,4 milioni di barili previsti dall’EIA.
In conclusione, se nel breve termine non si può escludere un ritorno del costo del barile vicino o sopra i 100 dollari, la backwardation che si vede sul mercato dei contratti future potrebbe indicare un futuro al ribasso per i corsi dell’oro nero, tra domanda in calo – causa inflazione e politica monetaria restrittiva – e ritorno in grande stile dello shale oil statunitense.
Illustrazione di matryx