L’ESG può diventare una bolla speculativa?

Quando ci si trova di fronte ad un asset che cresce con ritmi vertiginosi, come sta accadendo per l’ESG, è lecito, forse addirittura salutare, chiedersi se ci possano essere, nascosti o meno, rischi di bolla speculativa.

A metterci la pulce nell’orecchio ci pensa la Bank for International Settlements (BIS). Nel BIS Quarterly Review, Sirio Aramonte ed Anna Zabai hanno messo in fila un po’ di dati e le loro considerazioni sono molto interessanti. Partiamo dai dati. Dal 2016 al 2020 le emissioni di strumenti finanziari catalogabili come ESG secondo gli standard GSIA sono aumentate di circa un terzo, arrivando ad una cifra complessiva di capitalizzazione attorna ai 36 mila miliardi di dollari, il 36% circa del totale degli asset amministrati. Secondo un’altra classificazione, più stringente, dei due trilioni di dollari di capitale gestito con ETF e fondi comuni d’investimento, il 3% è azionario ESG/SRI, l’1% è obbligazionario ESG/SRI.

Qui nasce il primo grande problema. La difficoltà di interderci una volta per tutte su cosa sia investimento sostenibile e cosa no. Cambiando tassonomia, come osservano dalla BIS, i numeri cambiano in maniera considerevole. Cosa succederebbe, ad esempio, se si decidesse di adottare regole più stringenti? La realtà è che al momento le emissioni hanno preso il largo, mentre la classificazione stenta a trovare la quadra.

Ma andiamo avanti. Aramonte e Zabai ci ricordano un altro particolare non da poco: la scarsa trasparenza sul chi possiede cosa nell’ambito ESG. Questo rende difficile capire quali investitori stiano mettendo capitali in progetti di economia sostenibile. Ci sono statistiche sui green bond, certo, ma questi – osservano gli autori – sono solo una parte dell’universo ESG, che comprende anche azioni e private equity.

Indizi che nell’ESG c’è il rischio che possa scatenarsi una bolla speculativa? Di certo le zone grigie non aiutano e nemmeno le attuali valutazioni. La BIS ci ricorda che nella storia dei mercati le “rivoluzioni” sono sempre state pagate con ampi salassi. Gli autori citano le ferrovie USA del 1800, la bolla del dot com del 2000, la crisi dei subprime del 2008. Ma a preoccupare dal punto di vista della stabilità finanziaria non è tanto la valutazione dell’equity, seppure le società green viaggino su rapporti P/E superiori alle società growth, quanto i rischi legati al mercato del credito.

Come abbiamo ricordato settimana scorsa, i rendimenti dei titoli green sono nettamente inferiori a quelli dei titoli obbligazionari “standard”, un’irresistibile tentazione anche per aziende dai bilanci non proprio solidi. E questo potrebbe far aumentare il rischio complessivo in capo agli investitori.

Foto di Free-Photos

Gli ultimi articoli di Ekonomia.it direttamente nella tua casella mail. Iscriviti qui sotto.
I dati trasmessi attraverso questo modulo sono trattati secondo la nostra privacy policy, in linea con la normativa vigente. Per nessun motivo verranno ceduti a terze parti o utilizzati per l'invio di messaggi di natura commerciale.