Alla luce degli ultimi dati macro che vedono la Gran Bretagna in recessione tecnica, appaiono ancora più significativi i numeri di uno studio di Goldman Sachs sulle conseguenze economiche della Brexit.
Sul finire della scorsa settimana i dati macroeconomici provenienti dalla Gran Bretagna hanno certificato lo stato di recessione per l’economia inglese. Per il momento si tratta di una recessione tecnica, vale a dire la presenza di due trimestri consecutivi con una crescita negativa del PIL su base congiunturale, ma in questi dati c’è tutto il malessere del sistema Gran Bretagna; conseguenze della Brexit incluse.
I numeri li abbiamo raccontati nel nostro quotidiano appuntamento con la K Briefing. Nel quarto trimestre dell’anno scorso il PIL inglese ha registrato una flessione dello 0.3% su base congiunturale, secondo trimestre consecutivo in negativo e conseguente dichiarazione di recessione tecnica. In calo consumi privati, produzione, spesa pubblica ed esportazioni nette. Si salvano, per così dire, solo le spese in investimenti. Per il momento le variazioni sono di pochi decimale e va ricordato che complessivamente nel 2023 l’economia britannica ha registrato un avanzamento dello 0.1%, meglio, ad esempio, della Germania (-0.3%). Ma se allunghiamo lo sguardo non è difficile notare come la crescita della Gran Bretagna, oramai da parecchi anni, non possa certo definirsi brillante.
Problemi ultradecennali di produttività, certamente, ma con questi numeri è difficile non ritornare anche sull’argomento che dal 2016 è fonte di intensi dibattiti al di là e al di qua della Manica: la Brexit. Ad aggiungere benzina sul fuoco ci ha pensato nelle scorse settimane un report di Goldman Sachs. Sven Jari Stehn ed i suoi colleghi hanno fatto un semplice confronto tra la performance dell’economia inglese e quella di altre economie mondiali da quel fatidico 2016 ad oggi. I risultati? Probabilmente nulla che suoni davvero nuovo.
In poco meno di un decennio, in termini reali, la crescita del PIL della Gran Bretagna è stata significativamente inferiore rispetto a quella di altri paesi. Goldman Sachs ha calcolato una perdita di cinque punti percentuali rispetto ai concorrenti. Una fetta di questa mancata ricchezza prodotta può essere attribuita al mancato contributo da parte della componente delle esportazioni nette, riassunto in quel -15% di esportazioni verso i partner dell’Unione Europea e del resto del mondo.
Nel periodo preso in considerazione il PIL pro-capite di un cittadino britannico è cresciuto del 4% contro l’8% registrato nell’Eurozona ed il 15% degli USA. Sempre dal 2016 ad oggi le famiglie inglesi hanno far fronte ad un aumento dei prezzi del 31%, contro il +24% del carovita dell’Eurozona ed il +27% degli USA. Un’analisi della London School of Economics stima che un terzo dell’inflazione alimentare inglese sia diretta responsabilità dell’uscita dall’Unione. E la BoE ha calcolato che la Brexit ha significato un costo medio aggiuntivo di 1000 sterline all’anno per ogni cittadino. Non solo consumi, secondo i calcoli di Stehn e dei suoi colleghi, gli investimenti sul suolo inglese sono del 3% inferiori al livello che avrebbero potuto raggiungere senza quel “si” al referendum.
Ripetiamolo. Non tutti i mali dell’economia inglese possono essere attribuiti alla Brexit, ma pare abbastanza indiscutibile il fatto che l’uscita dall’Unione non ha di certo ridotto gli ostacoli sul cammino.
Foto di DANIEL DIAZ