La politica monetaria ultra espansiva della banca centrale del Giappone finisce sotto i riflettori del Fondo Monetario Internazionale. Con le incertezze legale all’inflazione la posizione della BoJ rimane rischiosa.
Hiroo Onoda è il nome di un soldato giapponese che per ben 30 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale ha continuato a credere di esser ancora nel bel mezzo del conflitto. Una convinzione spenta solo dal suo arresto, nel 1974 per l’appunto, nella giungla sull’isola filippina di Lubang.
La testardaggine di Hiroo potrebbe in qualche maniera essere assimilata a quella che la banca centrale del Giappone, la BoJ, sta adottando per la sua politica monetaria, unica fra quelle dei grandi istituti centrali del mondo a continuare a pompare liquidità nel sistema. E lo fa con un ventaglio di strumenti che arriva fino alla cosiddetta yield curve control, vale a dire l’obiettivo di mantenere i rendimenti dei titoli di stato di una certa scadenza – in questo caso i decennali – entro una determinata fascia di oscillazione.
La motivazione addotta dall’autorità monetaria del paese è per molti versi condivisibile. L’inflazione nel paese del sol levante ha toccato nel mese di dicembre il suo massimo dal 1991, ma il maggior contributo alla crescita dei prezzi arriva dai costi delle materie prime energetiche e dalla debolezza dello yen. Elementi che fanno ritenere alla BoJ che l’inflazione “core” sia ancora tutto sommato su livelli sostenibili ed in linea con il target di medio termine del 2%. Quindi, il ragionamento della banca centrale, meglio concentrarsi sul sostegno all’economia, colpita in maniera pesante dalla pandemia. Gli ultimi sondaggi PMI mostrano un settore privato in ripresa, tornato in zona espansione nel mese di gennaio per la prima volta dall’ottobre scorso.
Ma quanto sta costando lo sforzo espansivo della banca centrale? Tanto. Anzi, così tanto da indurre persino il Fondo Monetario Internazionale ad inviare a Tokyo un avvertimento sulla necessità di rivedere il proprio atteggiamento; cosa non così usuale.
Il controllo della curva dei rendimenti è uno strumento dai costi decisamente elevati e ce lo ricordava qualche settimana fa l’Economist. Secondo un calcolo fatto dal settimanale britannico, un aumento di solo 25 punti base del rendimento dei titoli di stato a 10 anni costa alla banca centrale, per neutralizzarlo, qualcosa come 1,4% del PIL, circa 7,5 trilioni di yen (al 10 gennaio scorso). Ed aiuta ricordare che la BoJ detiene in portafoglio quasi la metà dei titoli obbligazionari del mercato giapponese.
Numeri che hanno fatto suonare il campanello d’allarme dalle parti del Fondo Monetario Internazionale, che in uno dei suoi recenti Article IV report ha suggerito caldamente al Giappone di iniziare ad allargare le maglie della sua yield curve control, aumentando la banda di oscillazione del rendimento dei titoli a 10 anni o concentrando l’attenzione su scadenze più brevi. Il rischio, sottolinea l’FMI, è che la grande incertezza sul fronte dell’inflazione trovi nei mesi a venire una banca centrale giapponese a secco di munizioni o con la necessità di invertire la rotta in maniera brusca.
Foto di Kanenori