Banche centrali, è l’ora della parola fine alla politica monetaria ultra espansiva

Le banche centrali hanno cominciato ad incamminarsi verso la fine della fase di politica monetaria ultra espansiva, ma la corsa sarà per il momento a ranghi sparsi.

Le banche centrali sono state sicuramente le grandi protagoniste della settimana che ci siamo appena lasciati alle spalle. Le riunioni, fra le altre, di FED, BoE e BoJ, sono riuscite in qualche modo a mettere in secondo piano, tra le notizie ed i market movers, persino la crisi della società immobiliare cinese Evergrande.

Da diverso tempo i mercati finanziari cercavano di capire quale sarebbe stata l’evoluzione della politica monetaria una volta passata la fase più critica della pandemia. Interesse notevolmente cresciuto dopo che l’inflazione, dalla primavera scorsa, ha cominciato ad accelerare il passo. Settimana scorsa le prime risposte sono arrivate.

Si va quindi verso un ultimo trimestre del 2021 nel quale la politica monetaria delle banche centrali cambierà volto, abbandonando la sua fase ultra espansiva ed iniziando un cammino di normalizzazione. Un percorso che al contrario della risposta data allo scoppio della pandemia sarà molto meno omogeneo e molto più lento. Disomogeneità dovuta a differenti fattori. Nelle economie emergenti, ad esempio, la corsa dell’inflazione ha già costretto a severi interventi le banche centrali di molti paesi, tra i quali il Brasile, il Messico e la Russia (se consideriamo emergenti anche i BRIC). Nelle economie avanzate lo sguardo maggiormente orientato alla crescita ed all’occupazione rendono l’atteggiamento degli istituti centrali più compassato.

Il dado, comunque, è tratto. La scorsa settimana ben cinque banche centrali hanno alzato il tasso di interesse di riferimento. Lo ha fatto la banca centrale norvegese, primo istituto del cosiddetto G-10 a cambiare rotta, con un aumento di 25 punti base ed un altro in programma per dicembre. Hanno adottato una politica monetaria più restrittiva le bance centrali del Pakistan, del Brasile, dell’Ungheria e del Paraguay.

Le altre grandi banche del consesso del G-10 non hanno per il momento “fatto fuoco” ma, per usare la metafora militare, hanno iniziato a muovere le truppe. Così la FED, nella riunione di mercoledì scorso, ha definitivamente rotto gli indugi sulla fine del QE (entro fine anno) ed impostato una scadenza (fine 2022) per un primo rialzo dei tassi di interesse. Ancora più esplicita la BoE. L’istituto centrale inglese non ha escluso un prossimo rialzo dei tassi di interesse, specie se verranno confermate le previsioni di un’inflazione molto sostenuta anche nel 2022. Secondo gli analisti di Bank of America, l’istituto diretto da Andrew Bailey potrebbe alzare per due volte i tassi entro il prossimo maggio. Da tempo, infine, hanno annunciato un piano di rientro dagli stimoli monetari anti-pandemia le banche centrali di Australia e Canada.

Decisamente su altri ritmi, e verosimilmente con altri problemi da risolvere, la BCE. A Francoforte ogni decisione su tempi e modi del tapering, pardon, della rimodulazione degli stimoli, è rimandata a dicembre, mentre un aumento dei tassi di interesse sembra cosa lontanissima nel tempo. Del resto nell’Eurozona l’inflazione sale ma in maniera molto meno accentuata rispetto ad altre economie, e l’occupazione è da sempre molto lenta a rispondere ai cambi di scenario macroeconomico. La massa di debito pubblico di alcuni paesi, inoltre, consiglia ulteriore cautela.

Foto di William Warby

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