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Qualla vischiosità del mercato del lavoro post pandemia

Negli Stati Uniti il mercato del lavoro sta vivendo una nuova fase. Lasciato alle spalle un anno abbondante di numeri negativi, è tempo di riaperture – ampie – nel settore dei servizi, e di prospettive ottimistiche formatesi sulla scorta di previsioni di una massiccia spesa pubblica da qui ai prossimi mesi. Ma non tutto, forse, sta andando proprio come ci si poteva aspettare, a cominciare da una certa vischiosità del mercato del lavoro.

La ripresa economica in atto negli States si riflette anche sul mercato del lavoro, ma non con i numeri che ci sarebbe potuti attendere. Negli scorsi giorni sono stati pubblicati i dati sul numero di posti vacanti nel mese di aprile scorso: ben 9.3 milioni di posizioni lavorative in attesa di assegnazione, un numero che così alto non lo si registrava dal 2000. Nello stesso mese, però, il report del Dipartimento del Lavoro ci dice che i contratti firmati sono stati “solo” 6 milioni, con un gap tra posti disponibili ed assunzioni che ha superato i 3 milioni, altro numero che non si vedeva da molto tempo. Non solo. Sempre nel mese di aprile 4 milioni di lavoratori hanno preso la decisione di lasciare il proprio posto di lavoro, con un tasso in uscita che tocca la percentuale record del 2.7%. Numeri che suggeriscono almeno tre considerazioni. La prima è che l’economia statunitense sta riprendendo a creare opportunità di lavoro a ritmi molto sostenuti. La seconda considerazione è che emerge una certa vischiosità sul mercato del lavoro, con l’andamento delle assunzioni che risulta lenta nell’adeguarsi al ritmo di creazione di opportunità lavorative. La terza considerazione è che i lavoratori sembrano più fiduciosi nella possibilità di trovare una nuova occupazione, forse così fiduciosi da valutare con molta più calma le opportunità occupazionali che si presentano loro davanti.

Altra carne sul fuoco la mette il report della National Federation of Independent Business. Nell’aggiornamento di maggio del suo Small Business Optimistic Index emergono numeri davvero molto interessanti. Nel mese scorso il 48% delle piccole aziende statunitensi è rimasto a corto di lavoratori, non riuscendo ad assumere personale quanto sarebbe stato necessario. E questo anche se il 34% delle attività monitorate dall’NFIB ha aumentato il salario proposto. Da cosa dipende questa fatica a trovare lavoratori? I piccoli imprenditori sembrano non avere molti dubbi al proposito. Il 93% lamenta che le risposte alle loro offerte di lavoro sono poche o scarsamente qualificate per la mansione da ricoprire.

Numeri e sensazioni simili a quelle appena descritte si possono facilmente rintracciare anche nei vari sondaggi PMI elaborati da IHS Markit e dall’ISM. Il mercato del lavoro sembra vittima di una vischiosità che non sta permettendo un rapido recupero degli occupati persi nei mesi bui della prima ondata di pandemia, lasciando ancora oltre 7 milioni di cittadini in una condizione di disoccupazione. Perchè?

Gli indiziati di questo “strano” comportamento della dinamica occupazionale sono tre. Due seriamente indiziati ed uno tirato per la giacchetta soprattutto da una parte della politica USA. Innanzitutto la pandemia non è ancora del tutto archiviata e questo porta con sé alcune conseguenze importanti. Molti genitori sono ancora alle prese con la gestione dei figli, una fetta ancora sostanziosa di popolazione non è vaccinata, molte persone sono ancora titubanti sul tornare alla “normale” routine lavorativa, molte attività economiche devono riprendere a girare. In secondo luogo esiste un problema che gli inglesi chiamano “skills mismatch” e che altro non è se non la difficoltà di incrociare competenze possedute e competenze richieste dalle aziende. In parte ciò dipende dal fatto che la pandemia ha colpito soprattutto lavoratori a basso profilo di competenza, mentre la ripresa “carbura” soprattutto tra le cosiddette Entrepreneurial firms, spesso ad alto tasso di innovazione. In parte c’è un problema di mancata formazione, con l’allungamento dei periodi di disoccupazione che riducono ulteriormente la spendibilità delle proprie conoscenze.

C’è, infine, chi tira in ballo gli assegni che il governo federale ha staccato nei mei scorsi. La tesi è che i sussidi – giudicati troppo alti – siano un disincentivo all’occupazione. La questione è dibattuta e ne riparleremo. Per il momento più che di incentivo a non lavorare – difficile da credere vista la temporaneità dell’assegno staccato da Washington – i sussidi sembrano permettere ai lavoratori statunitensi di ripensare le loro aspettative occupazionali, fiduciosi che le opportunità nei prossimi mesi non mancheranno.

Foto di Pashminu Mansukhani

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