Doveva essere la settimana della Fed ma, dal punto di vista mediatico, lo è stata di Mario Draghi, il governatore della BCE. Eppure sia Draghi che Powell, con le loro decisioni, hanno dimostrato quanto, in un mondo “consenso-dipendente”, sia ancora possibile seguire altre strade.
Martedì, con un annuncio a sorpresa, Mario Draghi ha affermato che la Banca Centrale Europea è pronta a sostenere l’economia dell’eurozona qualora lo scenario andasse deteriorandosi. Taglio dei tassi, QE, tutti gli strumenti rimangono a disposizione. In un colpo solo il governatore, in scadenza a fine 2019, disegna un’eredità “dovish” per il suo successore (probabilmente il tedesco Weidmann che, un po’ a sorpresa, concorda sull’annuncio) ed allenta le tensioni sui mercati finanziari, in ansia tra Brexit ed affair Italia. La coerenza e la credibilità costruita in questi anni paga; i mal di pancia dei “falchi” tedeschi, invece, sono destinati a durare ancora, almeno per un anno.
Dall’altra parte dell’Atlantico la Fed, con gli occhi indispettiti di Trump puntati addosso, decide di non agire sull’onda emotiva ma di lanciare un segnale di calma agli investitori. Il messaggio di Powell è chiaro. La Fed c’è, se i segnali di deterioramento si facessero evidenti non avrà alcuna remora ad agire. Per il momento, però, l’economia lotta da sola e non ha bisogno di altro. Anzi, ad essere maligni, il messaggio è chiaro: se c’è una cosa di cui l’economia americana ha bisogno è proprio che la politica – Trump – risolva la grana dazi, generatrice di questo stato d’ansia macroeconomico. Ancora una volta la coerenza e la credibilità vengono prima di una decisione, facile facile, per seguire il consenso.
Draghi e Powell ribadiscono l’indipendenza delle istituzioni che rappresentano. Provano, tra difficoltà ed errori, a confrontarsi con la realtà e non con la percezione della stessa. Nel caso europeo si potrebbe addirittura intravedere un ruolo suppletivo della Bce nei confronti di una politica comunitaria tristemente incartata su se stessa.