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Stati Uniti e Cina, tra ipotesi di accordo e quello strano effetto sull’occupazione nel 2019

Mentre a Londra Stati Uniti e Cina sembrano aver trovato una via per arrivare ad un accordo commerciale, uno studio ci ricorda lo strano effetto sull’occupazione all’indomani delle tensioni del 2018-2019.

In questi giorni Londra è tornata ad essere un po’ il centro del mondo per i mercati finanziari mondiali. Non c’entra, però, la frenetica attività finanziaria della city, ma quanto accaduto al Lancaster House, dove le delegazioni di USA e Cina hanno annunciato di aver condiviso un piano di lavoro per giungere ad un accordo commerciale. Come si intuisce, l’utilizzo di una locuzione così lunga dimostra tutta la difficoltà a trovare un punto d’incontro tra le prime due economie mondiali.

La speranza – al momento confermata dalle parole del presidente Trump – è che si possa arrivare in breve tempo ad un primo accordo, qualcosa che ricordi la famosa “fase uno” del 2019. Proprio in riferimento a quelle vicende, c’è chi ha voluto ricordare come le tensioni commerciali, in un mondo interconnesso, portino spesso a risultati completamente diversi da quelli attesi.

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Nel pieno della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, tra il 2018 e il 2019, molti si aspettavano che l’inasprimento dei dazi avrebbe prodotto una sorta di “rinascimento” industriale interno nei due giganti mondiali. L’idea alla base delle tariffe era semplice (o semplicistica, dipende dai punti di vista): rendere più costose le importazioni per favorire la produzione e l’occupazione domestica. Tuttavia, i risultati sono stati ben diversi dalle aspettative.

Secondo uno studio condotto da Tiago Cavalcanti, Pedro Ogeda ed Emanuel Ornelas, pubblicato sul portale economico VOX CEPR, la guerra commerciale del 2019 non ha generato i benefici occupazionali attesi né negli Stati Uniti né in Cina. In compenso, eterogenesi dei fini, ha aperto una finestra di opportunità per altri paesi: tra questi spicca il Brasile.

I ricercatori si sono concentrati sull’effetto delle tariffe cinesi imposte sui prodotti statunitensi in risposta ai dazi americani. Hanno scoperto che diverse regioni del Brasile, in particolare quelle con un profilo produttivo simile a quello degli Stati Uniti (nei settori agricoli, minerari e manifatturieri), hanno beneficiato di una vera e propria “deviazione commerciale”. In altre parole, quando la Cina ha smesso di comprare certi beni dagli USA, ha cominciato ad acquistarli da altri fornitori — tra cui il Brasile.

Questo spostamento non è stato solo teorico: i dati mostrano che, tra il 2017 e il 2021, le regioni brasiliane più “esposte” all’effetto di sostituzione hanno registrato un aumento dell’occupazione formale e dei salari totali. È importante sottolineare che questo effetto non si è verificato nelle regioni esposte ai dazi imposti dagli Stati Uniti sui prodotti cinesi, il che suggerisce che il vero motore del cambiamento è stata la riorganizzazione delle importazioni cinesi.

Il messaggio lanciato dagli autori dello studio è chiaro: in un mondo interconnesso, le guerre commerciali non si giocano più solo tra i due contendenti principali. Le economie terze, soprattutto quelle con settori esportatori ben sviluppati, possono trovarsi nella posizione giusta per trarne vantaggio. Naturalmente, questo tipo di effetto positivo non è garantito: dipende dalla capacità di risposta delle imprese, dalla qualità delle infrastrutture, e da politiche che sappiano cogliere l’attimo.

Per chiudere potremmo dire che mentre le delegazioni discutono e la politica annuncia, minaccia, ritratta, è utile guardare oltre e considerare le dinamiche globali con maggiore attenzione. In altre parole: se Stati Uniti e Cina si scontrano a colpi di tariffe, qualcun altro — silenziosamente — lavora (e guadagna) di più.

Foto di Bellergy RC

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