Le ultime stime del Congressional Budget Office (CBO) proiettano il debito pubblico USA al 166% del PIL entro il 2054. 70 punti percentuali in più rispetto al livello raggiunto l’anno scorso e 60 punti percentuali in più rispetto al picco storico toccato nell’immediato dopo guerra (1946). Una traiettoria alimentata da un deficit primario (ossia la differenza tra le entrate e le uscite pubbliche al netto degli interessi sul debito) stimato in media al 2,2% del PIL nei prossimi tre decenni.
La questione della sostenibilità del debito pubblico degli Stati Uniti è stata oggetto di dibattito nel corso dell’ultima campagna elettorale per le presidenziali, con molti analisti a discutere sul come le proposte di politica fiscale presentate dai candidati potessero modificare, in meglio o in peggio, le proiezioni del CBO. Alcuni commentatori, lo abbiamo raccontato qui, sostenevano che gran parte delle proposte avrebbero implicato un aumento della spesa pubblica e che questo avrebbe potuto, senza adeguati tagli, portare il debito fuori controllo; con relativo rischio di una crisi finanziaria globale.
Di debito pubblico si occupa anche un’interessante ricerca preparata da Wendy Edelberg, Benjamin Harris e Louise Sheiner per il think tank Brookings. Una delle principali conclusioni dello studio è a suo modo tranquillizzante: il debito pubblico statunitense è si un grosso problema da affrontare, ma per molte ragioni è assai difficile che possa sfociare in una crisi finanziaria, intendondo per crisi “un calo improvviso, ampio e prolungato della domanda di titoli del Tesoro”.
Gli autori, dopo aver descritto in maniera molto chiara quali sono le conseguenze di alti livelli di deficit e di debito sul futuro di un’economia, e dopo aver ricordato come molti studi* affermino che la presenza di una banca centrale come compratore di ultima istanza riduca fortemente gli effetti di uno shock della domanda di titoli di stato, descrivono i principali scenari nei quali una crisi finanziaria potrebbe trovare la sua genesi.
Nella prima ipotesi, a scatenare la crisi potrebbe essere un grande investitore istituzionale che decide di vendere in fretta titoli di stato USA. Tuttavia, al momento, la quota di debito in mano ad investitori esteri si ferma al 30% e la Cina da sola arriva al 3% (circa 1 trilione di dollari, vale a dire la metà del valore del QT portato avanti negli ultimi mesi della FED). Percentuali che non sembrano sufficienti a scatenare una crisi e, inoltre, non è detto che una parte del 70% (o del 97%) residuo di investitori faccia la stessa scelta.
La seconda ipotesi prevede che il Congresso non riesca ad approvare la modifica del debt ceiling, il limite del debito. Gli autori suggeriscono che in questi casi, peraltro già verificatisi, FED e Tesoro possono intervenire prontamente per calmare i mercati e che si tratta di eventi di breve durata.
Il terzo caso coinvolge la banca centrale. L’ipotesi è che, messa sotto pressione, la FED decida di “mollare” il controllo sui prezzi, tollerando un’alta inflazione per ridurre il valore del debito pubblico USA. Ma gli autori sostengono che questa soluzione semplicemente non funzionerebbe, poiché gran parte del debito statunitense è a breve termine e dovrebbe essere rapidamente rinnovato a tassi di interesse più elevati.
L’ultimo scenario, ancora meno praticabile, prevederebbe un default “strategico” da parte degli USA. Ma si ritorna alle percentuali viste in precedenza, vale a dire a quel 70% di debito detenuto da investitori statunitensi. In estrema sintesi, si tratterebbe della più classica delle zappe sui piedi.
Edelberg, Harris e Sheiner concludono sottolineando come la crescita del debito pubblico statunitense non sia un potenziale detonatore di una crisi finanziaria, ma come rappresenti invece un trasferimento di consumi dalle generazioni future a quelle attuali, minando le potenzialità di crescita futura del paese. Occorre quindi affrontarlo da subito con un opportuno mix di riduzione della spesa e aumento delle entrate fiscali.
Tra le righe, però, compare anche un “caveat” che, in tempi così sorprendentemente mutevoli, è bene riportare: una crisi del debito statunitense rimarrà un’ipotesi remota fintanto che, testuale, “gli Stati Uniti manterranno le loro istituzioni forti e una traiettoria fiscale che non sia molto peggiore di quella attualmente prevista”.
*Krugman, P. Currency Regimes, Capital Flows, and Crises. IMF Econ Rev 62, 470–493 (2014). https://doi.org/10.1057/imfer.2014.9
Illustrazione di Tumisu