Aumenta la ricchezza mondiale. Ed è sempre più improduttiva

L’aumento della ricchezza mondiale è sempre meno correlato alla crescita economica ed agli investimenti produttivi. Questo in estrema sintesi il quadro che emerge dall’ultimo studio di McKinsey. Numeri sui quali vale la pena di riflettere.

Un mondo sempre più ricco che rischia di impoverire l’economia globale. Potremmo condensare in questo paradosso il risultato dell’ultimo studio pubblicato dall’istituto statunitense McKinsey sulla ricchezza mondiale. In The rise and rise of the global balance sheet: How productively are we using our wealth?, Jonathan Woetzel ed i suoi colleghi hanno ricostruito un vero e proprio bilancio globale utilizzando i dati dei 10 paesi che, sommati, rappresentano il 60% del PIL mondiale.

La ricchezza netta, risultato della differenza fra gli attivi (finanziari e non finanziari) ed i passivi (tra cui i debiti), risulta a fine 2020 pari a 520 trilioni di dollari, un valore quasi triplicato rispetto all’inizio del secolo (160 trilioni di dollari). Si tratta di una cifra pari a 6,1 volte il PIL globale, che significa in linea teorica una ricchezza netta media pro-capite di 66 mila dollari. In linea teorica, appunto, perchè la distribuzione di questa ricchezza è altamente disomogenea. Basti pensare che in Cina e USA il 10% della popolazione detiene i 2/3 del “malloppo” complessivo. La Cina, che superati gli USA si piazza in testa alla classifica stilata da McKinsey, conta su una ricchezza netta pari a 113 trilioni di dollari, poco meno di un terzo del totale, due volte abbondanti quella degli USA.

Ma da dove deriva questo impetuoso aumento della ricchezza mondiale? Qui il caso cinese è esemplare. Nel 2000, un anno prima di entrare nel WTO, il patrimonio netto cinese ammontava a 7 trilioni di dollari, poi è arrivata la super crescita economica e, soprattutto, il boom immobiliare. Si, perchè, complessivamente, il 68% della ricchezza accumulata è rappresentato da beni immobiliari. Un dato ancor più rilevante per il caso cinese, dove – come abbiamo raccontato qualche settimana fa – i prezzi del mattone sono schizzati verso l’alto nel corso degli anni. Nel complesso, spiega la ricerca, 2/3 dell’aumento della ricchezza mondiale è legato dall’aumento dei prezzi degli asset. Solo il 28% è frutto di maggiori investimenti e di nuovi risparmi. La politica monetaria ultraespansiva ha una buona parte di responsabilità in tutto questo.

Guardandola da un altro punto di vista, questo significa che la ricchezza globale è sempre meno utilizzata per aumentare la produttività del sistema economico e sempre più orientata alla rivalutazione del valore degli assets. Solo il 20% del patrimonio netto globale è costituito da investimenti, tangibili o intangibili, in grado di favorire la crescita economica. La riprova di questa “separazione” tra ricchezza ed investimenti produttivi, arriva dall’analisi del suo andamento rispetto al PIL mondiale. Se fino alla fine del secolo scorso il rapporto tra le due entità era stretto, dal 2000 le cose sono decisamente cambiate, con la valutazione della ricchezza sul PIL che nel 2020 era superiore del 50% rispetto alla media di lungo periodo.

A crescere molto più velocemente del PIL non è stata solo la ricchezza netta, ma anche il totale dei passivi. Per ogni dollaro di investimento netto creato nel ventennio 2000-2020, si è aperta una posizione passiva pari a 4 dollari, di cui 2 dollari di debito.

La ricchezza mondiale appare sempre più un gigante con i piedi di argilla, che distoglie risorse utili alla crescita economica e mette a rischio la vera ricchezza delle nazioni: la produttività.

Illustrazione di Mohamed Hassan

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