Semiconduttori, circuiti integrati o più semplicemente chip. Da questi piccoli oggetti dipende il funzionamento dei PC, degli smartphone e delle automobili. Ma il loro impiego spazia dalla lavatrice di casa alla tecnologia 5G. Da poco più di un anno trovare una fornitura adeguata e regolare di chip è diventata impresa ardua per qualsiasi industria internazionale. Il caso del “chip shortage” pone sotto i riflettori, per l’ennesima volta, tutta la debolezza della supply chain globale.
Ma andiamo con ordine. Per capire l’intera vicenda bisogna partire da un dato: la produzione di chip mondiale è sostanzialmente in capo a tre società: TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company), Samsung e Intel. TSMC ha una quota di mercato dell’84%, superiore a quella di Samsung e Intel messe assieme. In termini di profitti la società taiwanese vola su cifre record: 20 miliardi di dollari di utili, 48 miliardi di dollari di fatturato. Attorno a questi tre “giganti” ruotano poi una serie di produttori più piccoli. Considerando che Intel negli anni si è sempre più dedicata allo sviluppo di chip da utilizzare per i propri microprocessori, la gran parte della produzione di semiconduttori per tutti gli altri utilizzi industriali (dalle schede di memoria agli smartphone) è stata demandata in gran parte a due sole entità. Per citare un paio di dati pubblicati sull’Economist: il 62% del fatturato di TSMC viene dagli USA, il 17% dalla Cina.
Produrre microchip non è cosa semplice. Gli impianti per la produzione di semiconduttori sono dei giganteschi macchinari che bruciano grandi quantità di acqua e di energia elettrica, e che costano miliardi di dollari di investimento iniziale, ripagati soltanto con un tasso di utilizzo degli impianti molto prossimo al 100%. Una montagna di ostacoli che ha fatto le fortune di Taiwan, una sorta di patria del microchip, e della Corea del Sud.
A partire dal 2019 qualcosa è scivolato tra gli ingranaggi della poderosa supply chain che portava i circuiti integrati dall’Asia fino ai confini del mondo industriale. Quel qualcosa corrispondeva alle crescenti tensioni tra USA e Cina e che riducevano le possibilità di quest’ultima di sfruttare i brevetti statunitensi per la produzione di chip, rallentando lo sviluppo dell’industria di semiconduttori cinesi ed aumentando le pressioni di domanda su TSMC e Samsung. Ad inizio 2020, infatti, i produttori di PC cinesi, avvertendo il rischio di una riduzione delle scorte di chip e volendo approfittare della debolezza internazionale di Huawei, hanno rimpolpato i magazzini; il dato sulle importazioni di chip in Cina nel 2020 è significativo: 80 miliardi di ordinativi in più rispetto al 2019 (quasi un terzo in più).
La pandemia ha fatto il resto. I lockdown hanno aumentato notevolmente la domanda di elettronica (pc, tablet, smartphone, modem, sistemi di purificazione dell’aria, tv, etc…), assorbendo gran parte della produzione di semiconduttori. Nella prima parte del 2020 i produttori di microchip hanno potuto tenere il ritmo di richieste per il contemporaneo congelamento della domanda da parte del settore automotive. Nei mesi successivi le cose sono cambiate. La domanda da parte dell’industria dell’elettronica è rimasta sostenuta e, molto prima del previsto, il mercato dell’auto si è risvegliato. A quel punto le richieste di microchip sono andate alle stelle, mettendo in difficoltà le aziende produttrici.
A complicare ulteriormente le cose ci hanno pensato eventi esterni alla dinamica della domanda e dell’offerta. Il freddo record registrato in Texas nel febbraio scorso a costretto alla sospensione dell’attività di alcuni stabilimenti di Samsung; a marzo un incendio ha frenato la produzione in Giappone da parte di una delle principali fornitrici di microchip per auto; un’ondata di siccità eccezionale a Taiwan sta mettendo a serio rischio la sostenibilità degli attuali ritmi di produzione di TSMC.
Il primo risultato di tutto questo crescendo di eventi è stato il taglio della produzione da parte di big del settore automotive (da Ford alla Caterpillar, dalla VW fino alla Nio). Alcune analisi parlano di 61 miliardi di dollari di ricavi persi per il 2021 e la produzione di milioni di auto rimandata dal primo trimestre 2021 ai mesi a seguire. Ma la crisi cominicia a farsi sentire anche nei settori dell’elettronica, con la stessa Apple costretta ad ammettere che la mancanza di microchip avrà ripercussioni sulle vendine dei suoi dispositivi nel corso dell’anno. Secondo il CEO di STMicroElectronics i volumi di produzione torneranno a soddisfare in tempi “normali” la domanda solo verso la fine del 2021
La centralità dei semiconduttori nell’economia della rivoluzione post-industriale sta diventano anche un fattore di geopolitica. Taiwan è l’epicentro di una delicata sfida che vede da un lato la Cina alla ricerca dell’indipendenza dalla tecnologia USA; dall’altro lato l’occidente che prepara grandi investimenti per tornare a produrre chip ma che, visti i tempi lunghi di un tale piano, deve mantenere sicuro l’attuale canale di approvvigionamento.
La crescente domanda di semiconduttori porta con sé anche interrogativi sulla sostenibilità ambientale di tale produzione. Acqua ed energia elettrica sono risorse al centro della transizione green che i governi si stanno impegnando ad implementare. Nuovi sistemi di produzione ed impianti alimentati da fonti rinnovabili potrebbero diventare le chiavi del successo nel prossimo decennio per l’industria dei semiconduttori che, questo pare scontato, rimarrà sotto i riflettori ancora a lungo.
Foto di Michael Schwarzenberger