Recessione alle porte? Tanti indizi che non fanno (ancora) una prova

Recessione. Una parola sempre più frequente nei report degli analisti. Agitata come minaccia al futuro prossimo dei mercati e temuta dalla politica. Siamo davvero ad un passo da una nuova fase negativa del ciclo economico?

Basta dare uno sguardo al rendimento dei titoli di stato per capire quale sia l’umore degli investitori. In Germania non si trova un rendimento sopra zero nemmeno nei titoli con scadenza a 30 anni. I titoli di stato svizzeri fanno ancora peggio, con rendimenti negativi su scadenze a 50 anni. Anche i bistrattati BTP, pur nella persistente turbolenza politica ed incertezza economica che affligge il paese, sono arrivati a toccare i minimi dal 2016. Negli USA persiste, e si allarga, la differenza negativa tra i titoli a 10 anni e quelli a 3 mesi. Il rendimento dei titoli a 30 anni è inferiore alla media del rendimento da dividendi dello S&P500, cosa che non accadeva dal 2009.

Questa corsa agli asset meno rischiosi è confermata dall’impennata delle quotazioni dell’oro (bene rifugio per eccellenza, +18% nel 2019) e (in parte) dalla robusta valutazione del dollaro e dello yen.

Una situazione di risk off che è figlia delle tante aspettative createsi sull’arrivo imminente di una recessione. Ma su cosa si basano queste aspettative? Ed è davvero così vicina la recessione, negli USA e forse a livello globale?

Proviamo a dare uno sguardo a due tradizionali indicatori della salute dell’economia: i prezzi di rame e petrolio. Il rame, materiale largamente utilizzato nel settore industriale, è scivolato ai minimi dal 2017. Il petrolio, nonostante tagli di produzione e tensioni geopolitiche, non si schioda dalla zona dei 60 dollari al barile.

Il leading indicator, il barometro sull’andamento dell’economia mondiale nei prossimi 6/9 mesi, ci segnala un peggioramento in vista sia per gli USA che per la zona Euro.

Negli USA un sondaggio YouGov, dato rilanciato proprio oggi sull’Economist, mostra come la percentuale di cittadini che si attendono un peggioramento della situazione economica sia salita sopra il 30%, contro il 24% di inizio mandato Trump.

La parola chiave per spiegare questa lunga carrellata di indizi negativi sembra essere “incertezza”. Incertezza degli investitori e delle aziende. La prima genera un travaso di soldi da asset rischiosi ad asset più tranquilli. La seconda fa rallentare gli investimenti.

Una recessione globale, pur rimanendo un’ipotesi probabile, non sembra essere dietro l’angolo. Gli USA, malgrado le scelte troppo muscolari di Trump in politica estera, continuano a crescere, certo a ritmi inferiori rispetto al passato, forse non sufficienti a continuare il trend di diminuzione della disoccupazione, ma sia il 2019 che il 2020 dovrebbero avere il segno più davanti al numeretto fondamentale del PIL. Sarà fondamentale la tenuta dei consumi interni.

Il modello di previsione messo a punto dalla FED di NewYork assegna, al momento, una percentuale poco sopra il 37% alla possibilità di una recessione dell’economia americana entro i 12 mesi. Dato in impennata da inizio 2018 ad oggi.

Più complicata sembra la situazione europea dove i livelli di crescita, oramai tradizionalmente più bassi di quelli statunitensi, fanno oscillare la lancetta del prodotto interno lordo nei dintorni dello zero per molti paesi. Inoltre sull’Europa pesa come un macigno la sempre più intricata faccenda Brexit e le conseguenze nefaste su esportazioni e posti di lavoro di una uscita disordinata della Gran Bretagna dall’UE.

Ci attende un periodo nel quale le economie con una domanda interna debole soffriranno parecchio, almeno fino a che le tensioni sul commercio internazionale persisteranno. Avremo forse una crescita globale più disomogenea e non è escluso che qualche area geografica si trovi ad affrontare periodi di recessione. Sul quanto durerà e dove ci condurrà questo periodo, resta l’incertezza. La parola magica dei prossimi mesi.

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