Sfondo scuro Sfondo chiaro

Le azioni vincono sul lungo periodo? Ni

L’idea che le azioni vincano sempre sul lungo periodo non deve diventare una regola universale. Per ricordalo raccontiamo i dati di una ricerca di Edward F. McQuarrie

Lo abbiamo detto e sentito tante volte. Nel lungo periodo le azioni riducono il loro rischio e battono sistematicamente l’obbligazionario. Ma è davvero così? La risposta è proprio quel “ni” che abbiamo scritto nel titolo: lo è stato, in alcuni periodi.

L’analisi che ci può aiutare a capirne qualcosa di più è quella di Edward F. McQuarrie (professore dell’università di Santa Clara), pubblicata sul Financial Analysts Journal, che offre un contributo importante alla comprensione storica dei rendimenti azionari e obbligazionari. Utilizzando un database che copre ben 227 anni di dati – a partire dal 1792 fino ai più recenti aggiornamenti internazionali – lo studio mette in luce come il celebre adagio “Stocks for the Long Run” non sia una regola universale, ma piuttosto il risultato di specifici regimi di mercato che variano nel tempo.

Pubblicità

Tradizionalmente, si è sostenuto che investire in azioni garantisca un rendimento reale annualizzato intorno al 6–7%, con un vantaggio (il cosiddetto equity premium) consistente rispetto alle obbligazioni. Nella sua ricerca McQuarrie ha setacciato tutte le fonti disponibili – tra cui giornali storici e archivi d’epoca – per raccogliere dati su prezzi, dividendi e altre informazioni sulle azioni statunitensi e non solo. Un metodo che permettono di ridurre il “bias di survivorship” presente nelle analisi precedenti.

Il bias di survivorship, infatti, è una distorsione nell’analisi dei dati che si verifica quando si considerano solo gli esempi “sopravvissuti” a un certo processo, ignorando quelli che hanno fallito o non ce l’hanno fatta. Ad esempio, nel contesto degli investimenti, se si analizzano solo le aziende ancora quotate in borsa, si rischia di trarre conclusioni troppo ottimistiche sui rendimenti, perché si trascurano le società che hanno chiuso o sono fallite nel tempo. Questo porta a una sovrastima della performance media degli investimenti, poiché si escludono i casi negativi che potrebbero alterare significativamente il quadro complessivo.

Il risultato dell’analisi di McQuarrie è una ricostruzione storica articolata in tre sotto-periodi distinti:

1793–1862: Durante il XIX secolo, i dati rivelano una probabilità estremamente bassa che le azioni superassero le obbligazioni, attestandosi al 36,7% per periodi di 10 anni. Nei casi di holding period più lunghi, come 30 o 50 anni, la probabilità scende a 0%, evidenziando un equity premium negativo e una performance in cui le obbligazioni in alcuni casi hanno perfino superato le azioni.

1863–1941: In questo intervallo, la performance tra le due classi di asset diventa più equilibrata. La probabilità che le azioni superassero le obbligazioni si attesta attorno al 65% su periodi decennali, suggerendo una maggiore parità e una transizione nei meccanismi di allocazione del capitale.

1942–2019: Il regime postbellico mostra un netto miglioramento per le azioni. In questo periodo, le probabilità di outperformance crescono in modo impressionante, raggiungendo il 92,3% per periodi di 20 anni, il 98,7% per 30 anni e il 100% per holding period di 50 anni. In parallelo, l’equity premium medio annualizzato in quest’era si aggira attorno a circa 6,5 punti percentuali.

Questi numeri sottolineano come la performance delle azioni non sia un dato fisso, ma variabile in base al regime economico e temporale. Se nel periodo post-bellico le azioni hanno offerto rendimenti eccezionali, nel XIX secolo gli investitori che si erano affidati esclusivamente a esse avrebbero accumulato solo il 40% della ricchezza rispetto a chi aveva optato per obbligazioni, con un equity premium addirittura negativo.

Inoltre, l’analisi internazionale rafforza questo messaggio. Per i mercati fuori dagli Stati Uniti, il rendimento reale annualizzato delle azioni (ex-US) è oggi stimato attorno al 4,4%, in netto contrasto con il 6,6% ipotizzato in studi precedenti. Queste differenze, seppur numericamente contenute, si traducono in risultati sostanzialmente diversi nel lungo periodo: un dollaro investito in azioni statunitensi a partire dal 1900 avrebbe prodotto un valore finale ben superiore rispetto a un investimento equivalente in mercati esteri. Qualche esempio? Le azioni italiane, ad esempio, hanno perso il 78,2% nei 20 anni conclusi nel 1979, le azioni giapponesi hanno perso il 64,3% nei 20 anni conclusi nel 2009 e le azioni norvegesi hanno perso il 74,1% nei 30 anni conclusi nel 1978. Altrove, le azioni tedesche hanno perso il 21,5% nei 20 anni conclusi nel 1980 e le azioni svizzere hanno perso il 20,9% nei 30 anni conclusi nel 1991.

La ricerca di McQuarrie potrebbe sembrare una rivoluzione, la fine del mitico “Stocks for the Long Run” raccontato da Jeremy Siegel. In realtà questo studio ci riporta a una regola di buon senso. I dati storici dimostrano che, sebbene le azioni possano offrire performance eccezionali in determinati periodi – come è successo nel secondo Novecento – non esiste una regola fissa che ne garantisca il predominio su orizzonti temporali estremamente lunghi.

Alla luce di queste evidenze, affidarsi a un portafoglio “100% azionario”, seppur diversificato, può risultare rischioso, soprattutto in un contesto di incertezza sui regimi di mercato. La diversificazione tra asset class diventa quindi cruciale: una composizione bilanciata, ad esempio attraverso il classico portafoglio 60/40 (60% azioni, 40% obbligazioni), può offrire una protezione migliore contro le fluttuazioni e le inversioni dei rendimenti. Aggiungere altre attività finanziarie può rafforzare ulteriormente le “difese immunitarie” del nostro portafoglio.

Il messaggio chiave è che il concetto di “stationarity” – ovvero l’idea che i rendimenti azionari e obbligazionari seguano un pattern stabile e prevedibile nel tempo – non trova riscontro in un’analisi che abbraccia due secoli di storia finanziaria. Volatilità, correlazioni e contributo dei dividendi hanno mostrato dinamiche molto diverse a seconda del contesto storico. Pertanto, il passato non va interpretato come una garanzia per il futuro (si, non è solo un disclaimer), bensì come un insieme di regimi temporanei che offrono spunti per una gestione del rischio più attenta e flessibile.

Ne derivano due importanti avvisi ai naviganti. Il primo è che gli investitori dovrebbero sempre adottare strategie che riconoscano la variabilità dei regimi di mercato, puntando a una diversificazione che limiti i rischi e sfrutti le opportunità offerte dai differenti scenari storici e internazionali. Il secondo è che se i rendimenti delle azioni nel lungo periodo non sono così certi e lineari, la scelta di strumenti/prodotti finanziari che comportino costi di gestione elevati può aumentare ulteriormente il rischio di perdite.

Illustrazione di Vicki Hamilton

Resta aggiornato

Gli ultimi articoli di Ekonomia.it direttamente nella tua casella mail. Iscriviti qui sotto.
I dati trasmessi attraverso questo modulo sono trattati secondo la nostra privacy policy, in linea con la normativa vigente. Per nessun motivo verranno ceduti a terze parti o utilizzati per l'invio di messaggi di natura commerciale.
Post precedente

Stati Uniti, prezzi alla produzione stabili a febbraio

Post successivo

Gran Bretagna, crescita frena a gennaio, male produzione industriale

Pubblicità