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Trump Trade, cosa ne è stato dell’euforia su azioni e bitcoin?

A quasi quattro mesi dalle elezioni l’euforia su azioni e bitcoin, cuore del cosiddetto Trump Trade, sembra essersi smorzata, lasciando spazio al timore sul futuro dell’economia a stelle e strisce.

Sono passati oramai quasi quattro mesi dalle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, e poco più di un mese dall’insediamento ufficiale di Donald Trump alla Casa Bianca. Di cose ne sono succese parecchie, ma qualcosa sembra essere uscita dai radar. Ve lo ricordate il cosiddetto Trump Trade, tutte quelle attività finanziarie individuate dagli investitori come cavalli vincenti dell’era trumpiana: alcuni settori dell’azionario, le azioni small cap, i bitcoin e le altre criptovalute? Che cosa ne è stato dell’entusiamo che le ha accompagnate all’indomani della vittoria elettorale repubblicana? E ancora, le aspettative di inflazione che spingevano sui rendimenti dei titoli di stato, sono ancora tra noi?

Partiamo dall’azionario. I listini statunitensi non stanno vivendo un periodo particolarmente brillante. Lo S&P500 guadagna, rispetto al 5 novembre 2024, vale a dire il giorno delle elezioni, attorno al 5%, mentre il rendimento diventa negativo se consideriamo il periodo dall’insediamento in poi. Performance negativa per l’indice delle small cap, così come per settori quali gli industriali e le materie prime. Il comparto energia, destinatario dell’oramai famoso “drill, baby, drill”, guadagna dall’election day poco più dell’1%.

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Diciamolo subito, fa parte del gioco. I listini si nutrono di aspettative, e queste mutano in fretta. Ad oggi nessuna delle grandi promesse di deregulation è ancora stata messa a terra, e sul mercato sono calate soltanto le minacce di dazi. Così gli investitori, in attesa di vederci più chiaro, hanno iniziato a guardarsi attorno, scoprendo nei listini europei ed in quelli asiatici una buona alternativa. L’Eurostoxx 50 ha guadagnato quasi mille punti da metà novembre scorso ad oggi.

E le criptovalute? In questi tre mesi abbiamo vissuto momenti, per certi versi, storici. Il bitcoin ha superato per la prima volta la soglia dei 100 mila dollari, per poi rintracciare fino agli 88 mila attuali. Destino comune, forte accelerazione e ritorno, anche per le altre criptovalute, con la meme coin del presidente che registra un -34% da fine gennaio scorso. Anche la spinta degli ETF sembra essersi notevolmente affievolita, con le ultime settimane che hanno registrato forti uscite di capitale dai principali fondi a replica sulle criptovalute. Basti solo pensare che nella giornata di ieri le uscite di capitale dagli ETF sui bitcoin quotati a Wall Street ha toccato quota 1 miliardo di dollari, nuovo massimo storico (fonte Bloomberg).

Luna di miele con i mercati già finita? Forse si, ma se da un lato lo sgonfiamento dei Trump Trade è qualcosa di fisiologico, dall’altra viene da chiedersi se nei movimenti di azioni e bitcoin appena raccontati ci sia qualcosa di più profondo, un cambio di aspettative sui fondamentali dell’economia statunitense. Ed è qui che entra di prepotenza il mercato obbligazionario, ed in particolare il comportamento dei rendimenti dei Treasury.

Cosa sta succedendo. A metà gennaio scorso il rendimento dei titoli di stato statunitensi a 10 anni era al 4,8%, culmine di una risalita iniziata qualche settimana prima delle elezioni, quando diventava sempre più evidente il vantaggio di Trump su Biden. Ora il rendimento del T-10y è sceso al 4,33%, più o meno lo stesso livello di inizio novembre scorso. Ed è un movimento che, con ritmi diversi, si ripete su tutte le scadenze, dalle più corte fino ai titoli trentennali. Se l’impennata di fine 2024 era giustificata da aspettative di inflazione in salita (dazi, dollaro forte), l’attuale inversione di tendenza sembra indicare che gli investitori hanno iniziato a riconsiderare le prospettive di crescita dell’economia statunitense, e non in meglio. In altri termini, a far paura non è più l’inflazione, ma il rischio di un forte rallentamento della crescita. Così, stando alle ultime analisi, il movimento dei treasury implica un taglio dei tassi da parte della FED di oltre un punto nel 2025. Eventualità che troverebbe basi solide solo di fronte ad un peggioramento netto dei consumi o del mercato del lavoro.

Per il momento i segnali macroeconomici di un raffreddamento della congiuntura statunitense sono davvero pochi: i sondaggi sulla fiducia dei consumatori, l’andamento delle vendite al dettaglio di fine 2024 e poco più. I prossimi mesi saranno cruciali per l’amministrazione statunitense, qualsiasi segnale di cedimento sul fronte della crescita o del mercato del lavoro verrà scrupolosamente analizzato dagli investitori.

Foto di Pete Linforth

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