Quante volte abbiamo parlato delle relazioni esistenti tra economia reale e mercati finanziari? La teoria classica ci suggerisce che una crescita economica porta a maggiori profitti per le aziende. Se l’economia cresce, c’è maggiore consumo di beni e servizi, il che fa aumentare i ricavi e i margini di profitto delle imprese. Questo tende a spingere i prezzi delle azioni verso l’alto. Considerando anche le aspettative, ingrediente essenziale di ogni decisione d’investimento, possiamo completare l’affermazione precedente sostenendo che proiezioni di crescita economica sostenute sono anticipate dal mercato azionario che cresce pregustando profitti più alti nel futuro prossimo.
Bene, ora dimenticate tutto quello che abbiamo detto. O per lo meno lasciamoci lo spazio per qualche sano dubbio. Ad instillarlo, il dubbio, è una ricerca di Derek Horstmeyer (professore di finanza alla George Mason University) e dei suoi colleghi Nicholas Kline e Yashkaran Sidhu. Lo studio, raccontato dall’autore dalle colonne del Wall Street Journal, ci suggerisce che la relazione tra PIL in forte crescita e ritorno sui mercati finanziari non è così stretta come si potrebbe pensare.
Analizzando l’andamento della principale variabile macroeconomica (il PIL) e dei ritorni azionari denominati in dollari di 34 paesi negli ultimi 10 anni, Horstmeyer ha riscontrato che a tassi di crescita economica più elevata corrispondo i rendimenti medi annui dell’azionario più bassi. Qualche numero? Prendendo il primo quartile dei paesi a maggior crescita economica si raccimola un rendimento azionario medio annuo, nell’ultimo decennio, di appena lo 0.10%. L’ultimo quartile registra un rendimento del 3.42%; e la volatilità sui listini fa l’inverso: più alta nei paesi ad alta crescita e inferiore – in media di due punti percentuali – nei paesi con la crescita economica più bassa.
Come può essere possibile tutto ciò? Horstmeyer cita tre possibili cause di questo comportamento controintuitivo dei listini azionari. La prima è legata proprio alle aspettative degli investitori che si attenderebbero percentuali di crescita troppo elevate termini di profitti, abbandonando il campo ai primi sintomi di delusione. La seconda potenziale causa è che la crescita economica sarebbe guidata dal settore pubblico a discapito di quello privato. La terza è che essendo la crescita legata alle esportazioni la loro incentivazione con una politica monetaria accomodante “svaluterebbe” i ritorni azionari in moneta forte.
L’ultima ipotesi sembra essere la più valida e suggerisce, concludono gli autori, che investire in economie emergenti ad alto tasso di crescita attraverso strumenti denominati in valuta forte potrebbe dare più di qualche dispiacere.
Illustrazione di Mohamed Hassan