Il Medio Oriente è in fiamme e purtroppo non si tratta solo di una metafora. I missili partiti dall’Iran martedì nel tardo pomeriggio italiano sono solo l’ultimo gradino, in ordine temporale, di un’escalation militare che preoccupa anche i mercati finanziari.
Come mostra il grafico sopra riportato, martedì scorso la notizia dell’attacco missilistico iraniano ha fatto schizzare il prezzo del petrolio WTI da poco più di 68 dollari al barile a oltre i 71 dollari. Un evento, vista la debolezza che sta caratterizzando da molti mesi il prezzo del greggio e che ha le sue radici nel rischio di eccesso di offerta, ne parlavamo qualche giorno fa, e nelle massicce posizioni “bearish” da parte degli hedge funds.
A preoccupare non è tanto la produzione del petrolio ma le ritorsioni che l’Iran può mettere in atto di fronte ad una risposta israeliana. L’Iran attualmente produce circa 3.6 milioni di barili di greggio al giorno di cui 2 milioni destinati al mercato cinese. Stati Uniti, Arabia Saudita e Iraq ne producono assieme oltre 27 milioni di barili al giorno. Ma Teheran ha dalla sua il controllo dello stretto di Hormuz, il canale che immette nel golfo Persico e attraverso il quale passa il 30% del petrolio prodotto nell’area. Un’azione che blocchi o rallenti il passaggio delle petroliere per questo snodo cruciale può avere conseguenze pesanti sui prezzi, non potendo le poderose riserve di greggio statunitensi riuscire a compensare la rapida riduzione dell’offerta. Se a questo aggiungiamo la già complicata situazione all’imbocco del Mar Rosso, il quadro si fa ancora più allarmante.
Quando si parla di prezzi del petrolio l’associazione più naturale è con l’inflazione. Qui entra in gioco la grande domanda che circonda l’intera vicenda dal punto di vista economico. Possono le economie avanzate reggere una nuova ondata inflazionistica?
Premettendo che siamo nel campo delle ipotesi, l’idea che una guerra aperta tra Israele e Iran scateni un rialzo dei prezzi dell’energia in primis, ed un effetto a cascata sull’inflazione poi, porrebbe non pochi grattacapi alle principali banche centrali. Impegnate a rientrare dal pesante ciclo restrittivo, con l’economia che con varia intensità inizia ad accusare debolezza, FED e compagnia si troverebbero con spazi di manovra al rialzo molto ridotti e la conseguente alta probabilità di mandare in fumo i progetti di soft landing, facendo scivolare le proprie economie in una fase recessiva.
La speranza è che le pressioni internazionali riescano a raffreddare gli animi tra Israele e l’Iran, ma per l’economia mondiale questo ultimo scorcio di 2024 rischia di diventare tremendamente complicato.
Foto di ErikaWittlieb