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La crisi in medioriente, i prezzi di petrolio e gas e la variabile Iran

Negli ultimi mesi un massiccio aumento delle forniture statunitensi di petrolio e gas sta evitando l’impennata dei prezzi di fronte alla crisi in medioriente, ma un coinvolgimento diretto dell’Iran cambierebbe lo scenario.

I mercati finanziari guardano con grande preoccupazioni a quanto sta avvenendo nel quadrante mediorientale. La guerra ad Hamas scatenata da Israele dopo gli atroci fatti dell’ottobre scorso sta minando gli equilibri dell’area e rischia di coinvolgere direttamente paesi come il Libano e l’Iran. La tensione è altissima e l’impressione è che basti davvero poco perchè quel sottile filo di diplomazia che sta impedendo il peggio (se di peggio si può parlare vista la carneficina di civili in atto) possa rompersi.

Limitandoci al discorso economico, la preoccupazione principale è quella legata agli effetti che una escalation in quella zona del globo può scatenare sui prezzi delle materie prime e di riflesso sui prezzi al consumo. In altre parole il timore maggiore è che si possa concretizzare una ulteriore fiammata inflazionistica, evento che le banche centrali dovrebbero affrontare con nervi d’acciaio e con armi spuntate.

Il primo tassello a muoversi, come sempre accade, è quello legato alle materie prime energetiche. Gli attacchi ai cargo che transitano nel Mar Rosso e le proteste negli impianti di estrazione del gas in Libia sono le prime propaggini di una nebbia che può calare fitta sull’offerta di energia, soprattutto per l’Europa. Il punto di non ritorno, secondo molti analisti, è rappresentato dal coinvolgimento dell’Iran nel conflitto.

A dirlo sono i numeri, come quelli elaborati da Kpler e riportati qualche giorno fa dal Wall Street Journal. Negli scorsi mesi i prezzi del petrolio e del gas naturale hanno continuato a contrarsi nonostante la crescita delle tensioni. La motivazione di questo comportamento è rintracciabile nella maggior influenza degli USA nelle forniture verso l’Europa. Nel mese di novembre 2023, il flusso di petrolio in uscita dagli USA ha superato quello del secondo produttore mondiale, l’Iraq: 4.5 milioni di barili al giorno, frutto di un ritrovato slancio del settore dello shale oil. Poco meno della metà di questi barili sono stati recapitati in Europa, assieme ad una fornitura sempre più importante di gas naturale liquido (LNG).

Pur senza pressare sugli investimenti, ad ottobre scorso, l’industria dello shale oil statunitense ha aumentato la produzione di barili giornalieri di quasi 900 mila unità nel giro di 12 mesi. Ed è proprio grazie a questa maggiore produzione, unita a quella di altri paesi produttori “alternativi” all’OPEC, che i prezzi non sono saliti, evitando ripercussioni sull’inflazione.

Ma se nel domino in essere togliamo il tassello dell’Iran, tutto viene rimesso in discussione. L’Iran, infatti, oltre ad essere un enorme produttore di petrolio, può controllare il traffico sull’ancor più strategico stretto di Hormuz. Il risultato di tutto ciò, tradotto in numeri, è uno stock di 18 milioni di barili di greggio giornalieri a rischio. Uno shock che il petrolio di scisto statunitense, previsto solo in leggera crescita nel 2024, non può contrastare e che ridarebbe vigore ai prezzi del petrolio con le ovvie conseguenze sull’inflazione.

Foto di Garry Chapple

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