Tra le conseguenze indirette della pandemia potrebbe scatenarsi quello che in molti chiamano deglobalizzazione ma che in realtà appare più come un tentativo di smontare l’attuale sistema economico mondiale, sorto sulle ceneri della crisi del 2008, e caratterizzato dalla centralità della Cina. I primi segnali iniziano a manifestarsi e con essi si intravedono i rischi della ricerca di un nuovo equilibrio
Proprio mentre stavo scrivendo questo post, l’ANSA lanciava un’ultimora dal titolo perentorio: “Trump, pandemia è fine globalizzazione”.
La notizia fa riferimento ad una intervista, rilasciata poche ore fa alla Fox Business, nella quale Trump, dicendosi convinto che sia il momento di un dollaro forte, attribuisce alla pandemia il “merito” di aver rotto definitivamente il multilateralsmo spinto della globalizzazione.
Al di là dell’ardita perentorietà dell’affermazione, non v’è dubbio che una delle conseguenze della crisi scatenata dal coronavirus sia la messa in discussione della globalizzazione, almeno per come l’abbiamo conosciuta sino ad ora. I più avanguardisti parlano di deglobalizzazione, ma sarebbe più corretto parlare di cambio di equilibri.
Quello che pare stia iniziando a succedere è il tentativo di togliere alla Cina lo scettro di “principe” del sistema economico. Quello che fino ad ieri sembrava essere un puntiglio trumpiano, ora pare diventare un mugugno generale.
I movimenti sul campo cominciano a delinearsi. Da un lato l’interesse delle grandi economie delocalizzate a trovare soluzioni alternative al made in China; dall’altro lato l’offrirsi di alcuni paesi come nuova opportunità di produzione a costi bassi e ritmi alti; infine l’atteggiamento della Cina, che fiutata la trama prova a reagire mettendosi di traverso per quanto possibile.
Una situazione che rischia di caratterizzare i prossimi mesi e con esiti non del tutto delineati.
Prendiamo ad esempio l’India. Nelle scorse settimane è uscita la notizia che in una zona industriale del paese si starebbe attrezzando uno spazio ampio quanto due volte il Lussemburgo per accogliere tutte le industrie in uscita dalla Cina.
Il Giappone ha riservato 2,2 miliardi di yen del pacchetto di stimolo recentemente approvato per incentivare le imprese nipponiche ad abbandonare la produzione su suolo cinese.
Gli USA per il momento agiscono con un basso profilo, ma la minaccia di Trump di ripristinare dazi sui beni cinesi è lì, pronta ad essere tirata fuori prima di novembre, con il facile pretesto di un non rispetto da parte cinese degli accordi raggiunti nella fase 1 del negoziato bilaterale. Ricordavamo pochi giorni fa di come la Cina abbia notevolmente incrementato le importazioni di soia brasiliana (+28% da inizio anno), generando malumori tra gli agricoltori USA.
Quando un paese mostra segni di insofferenza al partner cinese, da Pechino si attiva la reazione. Ecco allora quanto racconta Micheal Heath. Il governo australiano sarebbe propenso ad appoggiare l’idea statunitense di aprire un’investigazione internazionale per capire le origini del coronavirus. Una posizione palesemente anti-cinese. La reazione non si è fatta attendere, con l’ambasciata cinese a Camberra che avverte i propri concittadini di un clima non positivo per loro nella più grande isola del mondo. Meglio visitare altre mete turistiche e far studiare i propri figli in altre università -scrive Heath.
Primi segnali di un lungo e logorante riassestamento che potrebbe trasformarsi nella vera crisi mondiale, nella quale il covid-19 diventerebbe solo un tragico antefatto.