Riprendiamo per un attimo il nostro caro e vecchio manuale di “macroeconomia” e proviamo a rispondere alla fatidica domanda: cosa succede alla valuta domestica nel caso in cui il governo imponga dazi sulle importazioni?
Partiamo dal primo effetto. I dazi rendono i prodotti importati più costosi, portando a una diminuzione delle importazioni. Con una minore domanda di beni esteri, diminuisce anche la richiesta di valuta estera per effettuare tali acquisti, il che può portare ad un apprezzamento della valuta nazionale.
La storia però non si conclude qui, perchè bisogna considerare le reazioni dei partner commerciali e soprattutto le aspettative sull’economia da parte degli investitori. Se i partner commerciali reagiscono con misure di ritorsione (ad esempio, introducendo a loro volta dazi sulle importazioni), le esportazioni potrebbero diminuire. Una riduzione delle esportazioni comporta un minor afflusso di valuta estera, ossia una minor domanda di valuta domestica che di conseguenza può indebolirsi. In aggiunta a questo, bisogna ricordare che misure protezionistiche come l’introduzione dei dazi possono essere interpretate dagli investitori come un segnale di incertezza economica o instabilità nelle relazioni commerciali internazionali. Questo può portare a una fuga di capitali o a un aumento del premio per il rischio, contribuendo a una potenziale debolezza della valuta di chi impone le tariffe.
Da tutto ciò ne deriva che l’effetto complessivo è misto e che a seconda della forza prevalente (calo importazioni, calo esportazioni, aspettative) l’effetto finale sulla valuta del paese che adotta politiche protezionistiche sarà o di rivalutazione o di svalutazione. Chiudiamo il nostro manuale e andiamo a vedere come si sta comportando il dollaro. Per farlo controlliamo l’andamento del Dollar Index, un indice che valuta il dollaro rispetto ad un paniere composto dalle principali valute internazionali.

Il grafico qui sopra ci mostra due cose. Da poco prima delle elezioni statunitensi fino a gennaio il Dollar Index è salito fino a toccare i massimi da fine 2022, successivamente la tendenza si è invertita, cancellando buona parte del guadagno costruito nei tre mesi scarsi precedenti. Il cambio di paradigma sembra evidente. Se nella prima fase l’idea trumpiana del “più dazi per tutti” aveva generato aspettative di inflazione e di calo delle importazioni (quindi aumento del valore del dollaro), la seconda fase è guidata da aspettative differenti: la reazione dei partner commerciali e il rischio di un pesante contraccolpo per l’economia interna hanno indebolito il biglietto verde, facendo scappare verso l’oro anche gli investitori che nel dollaro ritenevano di aver trovato un lido sicuro.
Dalle parti della Casa Bianca la situazione è monitorata con un certo pathos. Il segretario al Tesoro, Scott Bessent, ha recentemente sostenuto che il dollaro forte non fa altro che diminuire il potere d’acquisto nei paesi partner, facendo effettivamente scontare il prezzo dei dazi ai paesi a cui vengono imposti. Ora, tralasciando il fatto che i dazi vengono pagati dall’importatore e che questo generalmente passa i maggiori costi ai consumatori finali, la realtà dice che il dollaro forte al momento si è preso una pausa. L’agenzia Bloomberg ha fatto qualche calcolo. Dall’insediamento di Trump lo yuan, la moneta cinese, perde l’1,5%, Dollaro Canadese e Peso messicano registrano cali più consistenti ma nel complesso siamo ben al di sotto di quel 25%, il valore dei dazi finora imposti, che farebbe davvero “ingoiare i dazi” ai paesi esportatori, come sosteneva Bessent parlando della Cina.
La realtà è che le guerre commerciali, come le guerre di posizione, si trasformano sovente in bagni di sangue senza vincitori e con molte vittime. Gli investitori, con le posizioni sul dollaro e sull’azionario statunitense, stanno lanciando messaggi chiari.
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