Trovare una logica in quello che sta accadendo in queste settimane è estremamente arduo, ma per chi ha sempre cercato di mantenere visioni politiche e sentimenti personali al di fuori di questo blog, trovare una logica è l’unico modo per parlare degli Stati Uniti, di Trump e dei dazi che tanto stanno facendo preoccupare i mercati finanziari.
Lo ammetto, la prima idea per il titolo di questo post era “Trump ci sta trollando tutti”. Poi, riflettendo, la scelta è caduta su qualcosa di meno “slang“, ma in fondo in fondo rimane la convinzione che il presidente statunitense tenda al “trollaggio”.
Andiamo con ordine. Proviamo a ricostruire la logica ufficiale che sarebbe alla base dei dazi USA. Per farlo prendiamo le parole che Scott Bessent, Segretario del Tesoro degli Stati Uniti d’America, ha usato per descrivere i tre obiettivi di questa strategia: porre rimedio alle pratiche considerate sleali dei partner commerciali, rivitalizzando l’industria americana; aumentare le entrate per il bilancio federale e contribuire a finanziare i piani di Trump di estendere i tagli fiscali; utilizzare i dazi come leva nei confronti delle potenze straniere al posto delle sanzioni, che Trump ritiene essere uno strumento oramai abusato.
Ognuno di questi obiettivi presenta criticità importanti. Prendiamo il primo: colpire le importazioni per rivitalizzare l’industria statunitense. L’esperienza della pandemia dovrebbe averci insegnato qualcosa in tema di reshoring, vale a dire la volontà di riportare in patria produzioni che si erano delocalizzate o demandate ad altri paesi. Ricreare competenze “perse” negli anni necessita di forti investimenti in impianti, formazione e organizzazione del lavoro. In altri termini questo significa tempi necessariamente lunghi e costi necessariamente più alti. Ma attenzione. In più di un discorso Trump ha sottilineato – lo ha fatto anche l’atro ieri davanti al congresso – che mai e poi mai la sua amministrazione metterà i bastoni tra le ruote a chi vuole investire negli Stati Uniti. Questo però non significa rivitalizzare l’industria locale, ma portare concorrenti con bagagli tecnologici già pieni, con buona pace dell’industria nazionale.
Passiamo al secondo punto. Aumentare le entrate fiscali. I dazi funzionano più o meno così: l’importatore o chi per esso, paga la percentuale o l’importo fisso sul determinato bene importato. Questa tassa dovrebbe servire per ridurre il carico fiscale. Ma chi effettivamente paga i dazi? Secondo Trump il peso ricade sull’esportatore, ma secondo molti studi la distribuzione è molto più ampia. Certo, l’importatore può scegliere di incassare l’extra costo e non passarlo al consumatore finale, ma è assai probabile che alla fine decida di preservare una parte del proprio margine di profitto e alzare i prezzi finali. Nel complesso i dazi pesano sia sulle imprese, sia sui consumatori del paese che li impone, mentre l’esportatore può scegliere di cambiare mercati di approdo dei propri prodotti, o di piazzare una sede produttiva all’interno del paese che impone dazi. Alla fine della fiera ad essere colpiti sono i redditi delle famiglie e la capacità produttiva del paese, elementi che riducono la forza della politica fiscale espansiva e rischiano di deteriorare i conti pubblici.
Il terzo punto, per dirla con le parole del segretario del Commercio Howard Lutnik, è l’uso dei dazi come “strumento diplomatico”. Agire sullo spauracchio tariffe per ottenere una disponibilità alla trattativa dalla controparte. Un’idea soggetta a molte critiche: non tiene conto delle possibili ritorsioni delle controparti; potrebbe addirittura ritorcersi contro il paese che li impone, creando nuove coalizioni tra paesi che si oppongono a tali politiche; riduce la fiducia reciproca, e questo può rendere più difficile raggiungere accordi commerciali e politici futuri.
Nemmeno la storia sembra portare ragionevoli supporti alla teoria dei dazi come strumento per migliorare la situazione economica di un paese. Lo Smoot-Hawley Tariff Act del 1930, con un aumento dei dazi del 20% in media, portò ad una severa azione di ritorsione dei paesi partner degli Stati Uniti. Il risultato fu un pesante shock sul commercio internazionale e il collasso finale della Grande Depressione. In tempi molto più recenti, la prima ondata di dazi a Cina ed Europa nel periodo 2017-2019 ha portato a un calo significativo degli scambi commerciali internazionali, ad un aumento dell’inflazione e ad una riduzione della crescita economica mondiale.
E allora? A cosa servono realmente i dazi statunitensi? Quale logica può nascondersi dietro a quello che appare un enorme nonsense. La risposta, forse, sta nelle tempistiche. Primo: i dazi sono uno strumento, politico, di rapida attivazione che il presidente degli Stati Uniti può gestire senza passare per le lente maglie del Congresso. Secondo: l’effetto dei dazi non si sprigiona tutto in un momento ma tende a concentrare i suoi effetti più nefasti nel medio/lungo termine. C’è una prima fase, della durata di qualche mese, nella quale a soffrire sono i mercati finanziari e l’inflazione può risalire di qualche decimo. E’ un tempo, relativamente breve, che consente, con rischi elevatissimi in termini strategici ma con effetti negativi contenuti per l’economia, di utilizzare la strategia dei dazi come spauracchio per ottenere concessioni, strappare accordi, portare soldi ed investimenti sul suolo statunitense. E per farlo occorre sparare alto, più in alto possibile, quasi ai limiti della razionalità, se non oltre. E poi occorre farlo verso tutti gli obiettivi, nello stesso momento. Perchè poi, quando il trucco è scoperto, il gioco finisce.
Trump “gioca a carte” coi dazi per ridisegnare i rapporti di forza con i partner internazionali e i “nemici” storici. Ha poco tempo per farlo, deve sperare nelle debolezze degli altri giocatori e lanciare, di tanto in tanto, appigli per una trattativa. Una strategia spregiudicata i cui frutti si vedranno necessariamente in pochi mesi o non si vedranno. E se quest’ultimo fosse il risultato, non è dato a sapersi se esista un piano B.
Foto di Mariakray