Una nuova e consistente scorta di carburante sembra poter sostenere il tentativo di rally del dollaro USA sui mercati nelle prossime settimane, ma il biglietto verde continua a perdere appeal tra le banche centrali.
Per il dollaro statunitense sono giorni intensi. Martedì scorso, alla vigilia delle decisioni della FED e digeriti i dati sul mercato del lavoro, il Bloomberg Dollar Spot Index aveva avvicinato i massimi dell’anno, mettendo a segno in quattro sedute una variazione dell’1.1%. Un’inflazione più difficile da battere e la prospettiva di tassi più alti più a lungo rende la monetata statunitense interessante per gli investitori internazionali. Ma c’è di più. A sostenere il momento positivo della divisa USA, infatti, potrebbero essere le tante incertezze che si stanno materializzando in Europa all’indomani delle elezioni del parlamento europeo. Secondo molti analisti, infatti, le turbolenze che stanno interessando il debito francese (e marginalmente quello degli altri periferici) potrebbero aumentare l’avversione al rischio degli investitori intenazionali e dirottarli verso uno dei pochi “beni rifugio” ancora presenti sul mercato: il dollaro, appunto.
Se quanto descritto è uno dei potenziali scenari di breve termine sul mercato delle valute, la situazione cambia se cambiamo prospettiva e protagonisti della storia. Stando ai dati raccolti dal Fondo Monetario Internazionale, infatti, il dominio del dollaro USA nelle riserve di valuta estera delle banche centrali e dei governi, incontrastato per decenni, è sempre più a rischio. Si evidenzia così una sorta di decoupling tra valutazioni di mercato e le scelte delle autorità monetarie. Dal 2010 al 2023 il valore del dollar Index (fatto 100 il 2006) è passato da circa 80 punti a quasi 120. Nello stesso periodo la percentuale di riserve monetarie in dollari è scesa dal 62.18% al 58.41%; un declino ancor più marcato se si considera il periodo 2016-2023, con la percentuale passata dal 65.36% al 58.41%.
Un trend che non ha però avvantaggiato le altre valute “big” mondiali (Euro, Yen e Sterlina). A trarne vantaggio, infatti, sono state soprattutto le valute “non tradizionali” come ad esempio il dollaro canadese ed australiano, lo yuan cinese, le valute di Corea del Sud e Singapore; quelle dei paesi del nord Europa.
L’FMI spiega questo cambio di preferenze con la volontà da parte dei gestori istituzionali di aumentare la diversificazione e beneficiare di buoni rendimenti, favoriti in questo da una maggior semplicità nelle transazioni. Poca sembra invece l’influenza della situazione geopolitica sulle scelte degli istituti centrali. Se infatti dalle statistiche del Fondo si esclude la Russia (colpita dalle sanzioni internazionali e con la maggior necessità di staccarsi dal dollaro USA) il trend sopra descritto non mostra cambiamenti degni di nota.
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