Sri Lanka, paesi emergenti ed il ruolo della Cina

La crisi del debito in Sri Lanka è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno più corposo: la fragilità finanziaria dei paesi emergenti. Un report indaga il ruolo della Cina.

Secondo gli ultimi dati rilasciati dall’agenzia Fitch, dal 2020 ad oggi, tra le economie emergenti si sono verificati 14 episodi separati di default di stati sovrani. Per capire cosa significhi questo numero basta guardare a quanti “fallimenti” statali si sono verificati tra il 2000 ed il 2019: esattamente 13. Attualmente Fitch ha etichettato come emittenti in default cinque paesi: Bielorussia, Libano, Ghana, Sri Lanka e Zambia.

Il caso dello Sri Lanka è forse quello di maggiore attualità. Poco più di una settimana fa, infatti, il Fondo Monetario Internazionale è intervenuto disponendo un fondo di salvataggio da 3 miliardi di dollari, con una prima “rata” da 300 milioni già recapitata a Colombo. Ora per il paese asiatico ci sarà da ristrutturare un debito in valuta locale del valore di 38 miliardi di dollari ed uno in valuta estera che ne vale 41 miliardi.

La questione della fragilità finanziaria delle economie emergenti non è di poco conto. Né per le conseguenze sui mercati finanziari mondiali, né per le ripercussioni geopolitiche che queste vicende assumono, dove i protagonisti sono sempre loro: USA e Cina.

A farci capire meglio quale sia il punto critico della situazione ci aiuta uno studio preparato per il meeting annuale 2023 dell’American Economic Association. Dal 2000 al 2021 la Cina, attraverso la banca centrale e le altre banche a partecipazione statale, ha fornito ai paesi emergenti qualcosa come 240 miliardi di dollari di prestiti. Nel solo quadriennio 2016-2021, stando ai dati del report, 22 paesi hanno ricevuto prestiti cinesi per 185 miliardi di dollari. Nello stesso periodo, hanno calcolato gli autori, l’FMI ha distribuito “solo” 144 miliardi. Nei fatti, questa la tesi dello studio, la Cina è diventata nel corso degli anni un interessato bancomat per le economie emergenti. Ma la cosa sembra essere sfuggita di mano.

I governi dei paesi beneficiari, infatti, hanno utilizzato questi enormi flussi di denaro – sotto forma generalmente di currency swap agreements – non per rimpolpare la loro base di liquidità ma per aumentare le riserve in valuta estera e difendere la divisa locale, oltre che per le esigenze di spesa pubblica. Di ristrutturazione del debito e riforme per contenere la vacillante situazione finanziaria nemmeno l’ombra. Questo ha reso la Cina una sorta di prestatore di ultima istanza, ma con strumenti non sempre trasparenti ed a costi elevati.

La corsa del dollaro ed il forte rialzo dei tassi di interesse ha messo a nudo tutte le fragilità del sistema e così anche la Cina, da sempre riluttante a far parte di piani di salvataggio via FMI, ha dovuto cedere di fronte alla crisi in Sri Lanka, congelando la richiesta di pagamento su una linea di credito da 1.4 miliardi di dollari.

Foto di Mohamed Arafath

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