Tra FED e recessione, il nodo della disoccupazione

Per contrastare l’alta inflazione la FED sembra avere una sola via: smorzare il mercato del lavoro aumentando la disoccupazione; rendendo più concreto il rischio di una recessione.

L’ultimo dato sull’inflazione statunitense, se possibile, ha aumentato i dubbi degli investitori sulla possibilità da parte della FED di evitare che la sua aggressiva politica monetaria sfoci in una recessione per l’economia a stelle e strisce; e questo perchè appare sempre più evidente la necessità di “colpire” in maniera sensibile il mercato del lavoro aumentando la disoccupazione.

Al netto dell’effetto al ribasso dei prezzi dei carburanti, infatti, il carovita al di là dell’oceano continua a salire. Il dato core ha registrato un +0.6% su base mensile, vale a dire un +7.2% su base annua; più di tre volte il target del 2% inseguito dalla FED. Gli spiragli di luce intravisti in luglio paiono ora più flebili ed altri rialzi dei tassi si attendono nei prossimi mesi. Alcuni economisti, tra cui Larry Summers, si sono spinti ad ipotizzare la necessità di approvare un rialzo di un punto percentuale nella riunione del board di questa settimana.

Fino a questo momento le mosse della FED sembrano aver calmato le aspettative di inflazione da parte dei consumatori, ma non riescono ancora ad incidere sul motore principale dell’inflazione statunitense, vale a dire sul mercato del lavoro. I dati sono evidenti. Nel mese di agosto, stando ai numeri elaborati dalla FED di Atlanta, i salari sono saliti di quasi il 7% su base annua. Allo stesso tempo le offerte di lavoro si mantengono su livelli molto alti, tanto che il rapporto tra offerte e disoccupati si aggira ancora attorno al valore record di 2. In definitiva, fino a che non si riuscirà a scalfire la solidità dell’attuale mercato del lavoro, difficilmente ci saranno effetti consistenti sul fronte dell’inflazione. Detta in altri termini ancora, occorre che la disoccupazione (e non solo i posti vacanti come spera la banca centrale) salga perchè l’inflazione inizi a scendere (la cara vecchia curva di Phillips che ritorna).

Ma di quanto deve salire la disoccupazione? E che effetti può avere tutto questo sull’economia e sui mercati azionari? Secondo uno studio di Laurence Ball, Daniel Leigh e Prachi Mishra un livello di inflazione pari al 4.1% (mezzo punto circa in più rispetto al dato attuale) è compatibile con una proiezione dell’inflazione nel 2024 in una forchetta tra il 2.7% (scenario ottimistico) e l’8.8% (scenario pessimistico). Questo significa grande incertezza sulla reale portata dello sforzo da parte della FED. Vista da questa prospettiva assumono un significato più realistico i desiderata di Larry Summers sulle prossime mosse di Powell, ma anche le affermazioni di una vecchia volpe della finanza come Mark Mobius. Quest’ultimo, intervistato settimana scorsa da Bloomberg TV, ha ipotizzato la necessità che i tassi arrivino fino al 9% nel 2023.

In tutto questo i mercati azionari non rimarranno indifferenti. Ray Dalio, il capo di Bridgewater, ipotizza che i tassi della FED possano toccare un picco massimo attorno al 6%. Ma anche solo un livello del 4.5%, questo il ragionamento di Dalio, potrebbe significare per lo S&P500 una perdita di 20 punti percentuali. La motivazione tecnica è quella dello sconto degli utili futuri, ma tassi elevati significano per l’economia reale minor credito nel settore privato, quindi minor spese ed in definitiva minor crescita economica.

Foto di Federal Reserve

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