Pandemia, inflazione e dollaro forte sono tre sberle che, se prese in rapida successione, possono mettere in serie difficoltà le – tutto sommato – solide economie europee, ma il discorso si fa molto più pericoloso se si volge lo sguardo alle economie emergenti.
Come abbiamo avuto già modo di ricordare, la pandemia è stata affrontata in maniera molto differente tra paesi avanzati e paesi emergenti. Senza considerare la questione – dirimente – dell’accesso ai vaccini, basta accennare alla minor capacità di risposta della politica monetaria e fiscale delle economie emergenti alla crisi scatenata dal covid-19, una circostanza che sta ritardando la capacità di recupero di questi paese ed acutizzando situazioni di disuguaglianza nel loro tessuto sociale.
Così come la pandemia, anche l’inflazione rischia di avere conseguenze molto più pesanti sugli emergenti rispetto alle economie avanzate. Per capire l’impatto dell’aumento generalizzato dei costi, in particolare dell’energia e del cibo, basta osservare la tendenze della crescita economica: negli ultimi tre anni più della metà della popolazione delle economie emergenti ha vissuto in paesi nei quali la crescita del reddito, a parità di potere d’acquisto, è risultata inferiore a quella USA (fonte Economist). Una situazione che non si verificava dagli anni 80 dello scorso secolo; l’FMI stima per l’insieme delle economie emergenti una crescita del PIL nel 2022 pari al 3.8%, del 4.4% nel 2023. Si tratta di numeri, rivisti al ribasso, che rimangono sensibilmente sotto la media dei ritmi di crescita pre-covid.
In questo quadro, di evidende difficoltà, va inserito l’aumento dei costi dei beni energetici e, soprattutto, di quelli alimentari. Con il prezzo del grano salito in 12 mesi di oltre il 50%, per alcuni paesi importatori la situazione cominicia a farsi pericolosa. L’FMI la scorsa settimana ha ricordato in particolare la situazione dei paesi dell’America Latina, invitando i governi ad intervenire per sostenere i redditi più bassi e scongiurare l’esplosione di tensioni sociali. In Perù, ad esempio, il vertiginoso aumento del costo della vita, salito a livelli che non si vedevano da oltre venti anni, ha scatenato le proteste della popolazione, con tanto di coprifuoco imposto – e poi revocato – dal presidente Pedro Castillo nella capitale Lima.
E se l’aumento dei prezzi delle materie prime ha portato un po’ di sollievo nei bilanci di molti paesi emergenti che dalle loro esportazioni traggono linfa vitale, le mosse restrittive della FED ed il conseguente apprezzamento del dollaro, rischiano di trasformarsi nella terza sonora sberla consecutiva per i nuovi mercati. Un dollaro forte significa per molti paesi costi del debito in netto aumento, pagare di più le importazioni generando nuova inflazione e veder volare via capitali in direzione USA, invogliati dai rendimenti più alti. Lo scorso 12 aprile lo Sri Lanka ha dichiarato default di fronte all’impossibilità di onorare le proprie obbligazioni in valuta forte. E molti altri paesi rischiano di seguire il destino dello stato asiatico, visto che dalla scorsa estate i rendimenti dei prestiti in valuta forte dei paesi emergenti sono saliti di oltre il 30% e che, nello stesso periodo, l’ammontare di emissioni su livelli da pre-default – stando ai dati FMI – è più che raddoppiata.
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