In queste settimane politica ed economia sono impegnate a mitigare gli effetti di breve periodo della pandemia. Molte ricerche, però, iniziano ad indagare anche gli effetti del coronavirus sul lungo periodo. Una di queste si concentra sul tasso naturale di interesse.
Potremmo definire il tasso naturale di interesse come il prezzo che si determinerebbe incrociando domanda ed offerta di beni capitali reali nell’ipotesi che questi venissero prestati in natura, senza l’intermediazione della moneta. Si tratta di un valore teorico di lungo periodo utilizzato dalle banche centrali per calibrare le loro decisioni di politica monetaria nel tentativo di evitare che l’economia deragli dal suo percorso di crescita potenziale, determinando squilibri nei prezzi o nel mercato del lavoro.
Analizzare domanda ed offerta di beni capitali nel lungo periodo, pur con tutti i limiti teorici del caso, permette di farsi un’idea sulla “salute” di un’economia. In un sistema economico che presenta una crescita debole o in declino è lecito attendersi che ci sia una minore propensione ad investire da parte delle imprese ed una crescente propensione al risparmio da parte dei consumatori (che nell’incertezza preferiscono mettere da parte piuttosto che consumare). Questi due comportamenti fanno si che la domanda di beni capitali diminuisca e contemporaneamente ne aumenti l’offerta. Il risultato, nel classico schema domanda-offerta, è che il prezzo scende, vale a dire che scende il tasso naturale di interesse.
Per provare ad analizzare l’impatto del coronavirus sul lungo periodo, Òscar Jordà, Sanjay R. Singh, Alan M. Taylor, hanno cercato di capire cosa succede al tasso naturale di interesse di fronte ad un evento pandemico.
Nella loro ricerca, pubblicata dal CEPR, i tre economisti hanno calcolato l’andamento del tasso naturale in Europa nel periodo 1315–2018, analizzando i rendimenti del debito sovereign di lungo periodo. Dalla “morte nera” del 1300 ad oggi, il vecchio continente ha affrontato 15 episodi di epidemia. Il risultato di questa ricerca ci dice che gli effetti della pandemia sul tasso naturale sono molto persistenti. A 20 anni dall’evento pandemico il tasso naturale si trova ancora 1,5 punti percentuali sotto e solo dopo 40 anni ritorna al livello iniziale. Per avere un parametro di riferimento, ricordano i ricercatori, basti pensare che l’effetto sul tasso naturale di una recessione causata da una crisi finanziaria si esaurisce nell’arco di massimo 10 anni.
Molti si riferiscono alla pandemia in corso come ad una sorta di guerra mondiale. Ma lo studio di Jordà, Singh e Taylor ci dice che l’effetto dei due fenomeni sul rendimento reale del capitale è opposto. Riassumendo al massimo: mentre la guerra distrugge in maggior misura il capitale (l’offerta), la pandemia agisce in maniera più pesante sul lavoro (la domanda). L’analisi dei dati dice che un evento bellico porta ad un aumento del tasso naturale di interesse, fenomeno che persiste per 30-40 anni dopo la fine del conflitto.
Lo studio ci indica una possibile interpretazione degli effetti del coronavirus nel lungo periodo. La conclusione a cui si giunge è che una pandemia tende a deprimere per lungo tempo il rendimento dei beni capitali, determinandone un eccesso di offerta.
In uno scenario di questo tipo è centrale il ruolo della politica fiscale. Mentre la politica monetaria si trova a corto di munizioni, l’intervento fiscale può agire sulla leva del debito, sfruttando i tassi bassi ed incentivando investimenti e consumi, chiavi fondamentali per arginare il declino.
Foto di Oleg Gamulinskiy