Hard Brexit. Un cruccio anche per la politica monetaria

L’uscita del Regno Unito dall’unione europea, sempre più dilemma da settimana enigmistica, porta con sé grossi dubbi anche sul possibile e più opportuno comportamento che la Banca Centrale di sua Maestà dovrà tenere in caso di Hard Brexit.

Prendiamo lo spunto per questo post da una riflessione pubblicata settimana scorsa sull’Economist. Ci sembra un altro utile tassello per comprendere quante complicazioni comporti una decisione così profonda come l’uscita dalla comunità europea senza alcun accordo (la hard brexit che tanto piace a Farange e compagni).

Immaginate lo scoccare della mezzanotte del 1° novembre 2019 con il Regno Unito che esce, senza alcun accordo, dall’unione europea. Una delle istituzioni che sicuramente si troverebbe ad intervenire per prima sarebbe la Banca Centrale. Ma come?

La Hard Brexit avrebbe come primo effetto uno shock della domanda. Il clima di incertezza sul futuro dell’economia inglese produrrebbe una diminuzione della propensione al consumo, una riduzione degli investimenti ed un aumento della disoccupazione. Aumentare la liquidità nel sistema è una buon metodo per ridare fiato agli acquisti di beni e servizi. Istintivamente viene quindi da pensare che la cosa migliore da fare per la Bank of England (BoE) sarebbe tagliare i tassi di interesse e magari aggiungerci un piano di quantitative easing . Ma, come sottolinea l’Economist, c’è un grande ma.

Innanzitutto occorre dare uno sguardo all’attuale livello dei tassi di interesse e all’inflazione. Il primo dato oggi è fermo a 0,75%, mentre l’inflazione naviga leggermente sopra il target del 2%. Questo significa che gli spazi di manovra per la BoE sono piuttosto limitati. In secondo luogo l’espansione monetaria non sarebbe l’unica forza ad agire sui prezzi e questo porta con sé il rischio di un sensibile allontanamento, seppur di breve/medio termine, dal target di inflazione.

La sterlina, in presenza di una Hard Brexit, sarebbe vittima di svalutazione ed una moneta locale debole porta a prezzi di beni e servizi importati più elevati, quindi maggiore inflazione. Il settimanale inglese riporta qualche dato stimato: una svalutazione del pound del 10% avrebbe come effetto un aumento dei prezzi del 2/3%.

Ma non è finita qui. Con le frontiere chiuse molta parte della spesa dei cittadini britannici verrebbe dirottata su prodotti nazionali. La forte richiesta metterebbe sotto pressione i produttori che, nell’incapacità di soddisfare tutta la domanda, reagirebbero aumentando a loro volta i prezzi.

Uno scenario, quindi, con una forte spinta inflattiva che suggerirebbe alla Banca Centrale di aumentare i tassi per smorzare la corsa dei prezzi. L’atteggiamento opposto a quello descritto prima. Un dilemma nel dilemma.

Foto di Adam Derewecki

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