Dopo la BCE tocca alla FED essere la protagonista della settimana finanziaria. Nella riunione che si terrà tra domani e mercoledì sapremo se ci sarà e di quanto sarà il taglio dei tassi di interesse USA.
Ma non sarà solo la quantità ad essere importante. Gli analisti cercheranno di capire, dalle motivazioni del taglio, se è possibile ipotizzare altri interventi o se questo sarà l’unico “insurance cut”, come dicono gli inglesi, per stabilizzare l’economia americana ed aiutarla a superare la complicata congiuntura internazionale.
Le previsioni parlano di un taglio di 25 punti base che porterebbe i tassi al range tra il 2 ed il 2,25%. Poche possibilità (il 20% secondo i dati CME) che il taglio sia più robusto.
L’opinione prevalente è che questo taglio dei tassi sarà soprattutto un segnale. L’avvertimento che la banca centrale c’è ed è pronta in ogni momento a rivedere la propria posizione per sostenere l’economia USA ed evitare surriscaldamenti. A livello “pratico” dovrebbe cambiare poco. Dati i bassi livelli dei tassi nelle altre zone economiche, il dollaro non dovrebbe subire brusche frenate e di conseguenza non dovrebbero trarne particolari vantaggi le economie emergenti (che soffrono un dollaro forte).
I dati macro continuano ad indicare che l’economia americana cresce, a ritmi più bassi ma continua a salire. Il mercato del lavoro rimane stabile e l’inflazione si mantiene a ridosso del target. L’annosa questione dazi fa male (le trimestrali lo confermano) ma la domanda interna, che pesa per poco meno di 2/3 sul PIL USA, tiene.
La situazione sembra ottimale per un insurance cut. Alcuni analisti vedono analogie con le operazioni effettuate dalla FED nel 1995 e nel 1998. Operazioni di stabilizzazione che consentirono all’economia americana di sopravvivere alla fase di turbolenza (un surriscaldamento nel primo caso e la crisi del debito russo nel secondo). In entrambe i precedenti, come fanno notare in Goldman Sachs, le conseguenze sul mercato obbligazionario furono marginali.