Petrolio, l’OPEC+ spara le sue ultime cartucce

La decisione dell’OPEC+ di ridurre la produzione di petrolio giornaliera di oltre un milione di barili pone nuovi rischi sul fronte dei prezzi e rappresenta il tentativo di finanziare la transizione dei paesi produttori verso un’economia slegata dal greggio.

Nelle scorse settimane il ritornello che risuanava nel commentare i dati calanti dell’inflazione nelle principali economie mondiali era più o meno lo stesso: forte calo nei prezzi dell’energia. Il prezzo del brent, ad esempio, era passato dal picco di 122 dollari al barile di giugno 2022 ai 72 dollari del 21 marzo scorso. Un raffreddamento della pressione inflazionistica che faceva respirare un po’ più tranquillamente anche le banche centrali. Ma la decisione annunciata dall’OPEC+ domenica sera ha sorpreso un po’ tutti e potrebbe scombussolare nuovamente le carte.

Ma andiamo con ordine. Domenica sera, l’organizzazione dei paesi produttori di petrolio ha annunciato la volontà di ridurre la produzione giornaliera di greggio, di fatto sconfessando una linea di non intervento sostenuta da alcuni dei suoi rappresentanti fino a venerdì scorso. I numeri sono significativi: la riduzione sarà di 1,2 milioni di barili di greggio al giorno, mezzo milione solo quelli in meno prodotti dall’Arabia Saudita. In percentuale si tratta di una riduzione pari a circa il 2% della produzione totale. Numeri che potrebbero essere irrobustiti se la Russia darà seguito alla sua volonta di produrre 300 mila barili di petrolio in meno al giorno sino a fine anno.

I mercati hanno reagito come ci si poteva attendere. Il prezzo del petrolio WTI è salito dell’8% nella giornata di lunedì scorso, con quelli della benzina in rialzo di quasi 5 punti percentuali. La decisione dell’OPEC+ sembra destinata a creare più di qualche grattacapo soprattutto in Asia . Sul mercato di riferimento per l’area (quello di Dubai) lo spread della backwardation (la differenza, positiva, tra prezzo spot e prezzo future, indicatore di problemi sul lato dell’offerta) è salito in maniera molto più marcata rispetto a quanto registrato per WTI e Brent. Del resto basta ricordare che Aramco (Arabia Saudita, maggior produttore di petrolio dell’OPEC+) vende il 60% del suo greggio proprio a paesi dell’area asiatica, con Cina, Giappone e Corea del Sud in testa. Ad occidente, invece, gli analisti sembrano convinti che i produttori di shale oil saranno in grado in poco tempo di aumentare la produzione, fermando la corsa al rialzo dei prezzi. Nel frattempo, però, le riserve di petrolio negli USA hanno subito una contrazione di 3,7 milioni di barili solo la scorsa settimana, un ulteriore segnale di problemi lato offerta nei prossimi mesi.

La decisione dell’OPEC+, biasimata senza mezzi termini anche dalla Casa Bianca, rappresenta di certo un nuovo rischio per l’inflazione mondiale ma forse – e soprattutto – è l’indicatore di una strategia con cui dovremo fare i conti nei prossimi anni.

Sul fronte inflazione gli effetti potrebbero essere solo momentanei. Se è vero che alcuni analisti ipotizzano un ritorno del prezzo del barile sopra i 100 dollari e che secondo altri il mercato rischia di vedere un deficit di offerta in tempi brevi, dall’altro lato è vero anche che la situazione economica internazionale non è certo ultra espansiva, con la domanda fiaccata da inflazione e tassi di interesse. Se volessimo scomodare l’analisi intermarket potremmo anche ricordare come in genere una fiammata dei prezzi del petrolio sia il preludio ad una fase di rallentamento del ciclo economico. In definitiva la mossa dell’OPEC+ non sembra motivata dalla volontà di sfruttare una domanda sostenuta ma piuttosto da quella di anticiparne il calo, portando a casa più profitti possibili.

E qui sta probabilmente il tema più profondo, quello con il quale dovremo – come si diceva – fare i conti nei prossimi anni. Bhushan Bahree di IHS Markit, intervistato dall’Economist, lo ha riassunto in modo perfetto. Facendo riferimento all’Arabia Saudita, Bahree ha ricordato i piani governativi di modernizzazione dell’economia. Trilioni di dollari di investimenti con i quali trasformare il paese in un hub economico e turistico. E dove trovare questi soldi se non dal caro vecchio petrolio? In altri termini l’Arabia Saudita cerca di sfruttare il petrolio per diventare un paese meno dipendente dal petrolio stesso. Ed il problema di reinventare un futuro senza il “bancomat fossile” riguarda naturalmente anche gli altri produttori, dell’area e non. La conclusione, avverte Helima Croft di RBC Capital Markets LLC – intervistata dall’agenzia Bloomberg – è che le decisioni di paesi come l’Arabia Saudita sono sempre meno legate alla situazione internazionale e di mercato e sempre più diretta conseguenza degli interessi e progetti interni al paese.

In definitiva l’OPEC sta sparando le sue ultime cartucce prima che il petrolio imbocchi la sua parabola discendente. Ma saranno pallottole care e non prive di conseguenze.

Foto di Retina Creative

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