Moltiplicatore fiscale durante la crisi pandemica, i primi dati USA

In macroeconomia si utilizza spesso il concetto di moltiplicatore fiscale per studiare gli effetti di un aumento della spesa pubblica sul reddito nazionale (stipendi, profitti, rendite, imposte). La regola del moltiplicatore ci dice che un incremento di una unità della spesa pubblica si trasforma in un incremento superiore all’unità del reddito nazionale.

La condizione perchè ciò accada è che la domanda di moneta non sia insensibile, in altre parole questo significa che l’aumento della moneta disponibile si trasforma, almeno in parte, in consumo o investimento. Detta in altra maniera l’efficacia del moltiplicatore fiscale è strettamente legata alla propensione al consumo (ed all’investimento).

Quell’unità in più di spesa pubblica, utilizzata da famiglie ed imprese per consumare e investire di più, aumenta il reddito nazionale che a sua volta aumenta i consumi che a loro volta incrementano il reddito nazionale. In un circolo virtuoso, l’aumento finale del reddito nazionale risulta superiore all’unità di spesa pubblica iniettata nel sistema. Addirittura l’incremento delle imposte, effetto dell’aumento di stipendi e profitti, porta sotto l’unità l’incremento di spesa netta iniziale.

Nel corso degli anni si è discusso molto sulla qualità dell’incremento di reddito nazionale innescato dal moltiplicatore fiscale. Una corrente di pensiero ritiene che, semplificando, per far funzionare il meccanismo del moltiplicatore occorre agire sulla capacità produttiva del sistema economico e non sul consumo fine a se stesso. Solo aumentando la produttività si può ottenere un incremento del reddito nel medio periodo e per certi aspetti di carattere strutturale.

Gli ultimi due anni sono stati segnati da un robusto aumento della spesa pubblica, interventi resi necessari dalla comparsa della pandemia con le sue conseguenze rapidissime e pesanti sull’economia. E’ quindi lecito domandarsi se questa enorme massa di spesa pubblica abbia o no innescato un effetto moltiplicatore.

Alan Auerbach, Yuriy Gorodnichenko, Peter B. McCrory e Daniel Murphy hanno recentemente pubblicato un discussion paper sull’argomento e questo lavoro è di fatto il primo in grado di darci qualche numero.

Studiando l’andamento di alcuni indicatori rapidi dell’attività economica statunitense nel corso dei mesi più duri della pandemia, Auerbach ed i suoi colleghi hanno notato un effetto positivo sull’occupazione negli stati con minori restrizioni alla mobilità delle persone. Tradotto in numeri, nella primavera del 2020, 4 mila dollari di spesa pubblica aggiuntiva si sono trasformati in un nuovo posto di lavoro. Scarsi, invece, gli effetti sui consumi, con i lockdown a generare un’insensibilità della domanda di moneta che si è trasformata in un aumento – record – dei risparmi privati.

Secondo la tesi di Auerbach e colleghi, la propensione al consumo, bassa nei mesi di lockdown, è successivamente e rapidamente aumentata, contribuendo al rialzo dei prezzi al consumo che è diventato il principale cruccio delle banche centrali. Un effetto collaterale in larga parte dovuto al fatto che l’aumento di spesa pubblica si è trasformato soprattutto in eccesso di risparmi privati.

Tirando le somme il moltiplicatore fiscale che ben si era comportato nella crisi del 2008, sostenendo occupazione e redditi, sembra aver avuto effetti contraddittori nel corso della crisi pandemica. Questo è senza dubbio dovuto alla differente natura delle due crisi, ma è anche la riprova che un utilizzo generalizzato della spesa pubblica può portare più problemi che benefici al sistema economico. La spesa pubblica non dovrebbe, salvo situazioni di necessità, aumentare direttamente i consumi, ma liberare le energie produttive di un paese. Le uniche in grado di far aumentare il reddito nazionale in maniera strutturale.

Illustrazione di Mohamed Hassan

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