Climate change e l’obbligato processo di adattamento

Con i cambiamenti climatici destinati a far sentire sempre più i loro effetti nei prossimi decenni, l’economia deve imboccare un processo di adattamento. Il settore agricolo ne è un esempio.

Tra gli studi sul clima più significativi pubblicati nel 2021 c’è senza dubbio quello dell’IPCC. Quel documento ci ricorda come il fenomeno del surriscaldamento globale dispiegherà i suoi effetti per almeno i prossimi tre decenni. Il che significa due cose: la necessità di agire da subito sulle cause scatenanti del surriscaldamento per limitarle temporalmente; e l’ineludibilità di un processo di adattamento delle attività umane alla nuova realtà climatica.

Quello che il sistema produttivo inizia ad intuire, e che i governi stentano a comprendere in profondità, è che alcuni trend climatici emersi nell’ultimo decennio proseguiranno ancora per molto tempo, con una sempre maggiore severità. Uno dei settori più a rischio è quello, cruciale, dell’agricoltura. Le mutazioni del clima, con il loro carico di prolungati periodi di siccità ed altri eventi atmosferici estremi, renderanno alcune zone geografiche sempre meno produttive, mentre altre, divenute climaticamente più miti, aumenteranno la loro capacità di produrre beni agricoli.

L’adattamento alla nuova realtà climatica porterà necessariamente ad un cambio della geografia produttiva mondiale e questo pone nuove questioni sulla sostenibilità dell’attuale modello economico e sul futuro dei paesi economicamente più poveri.

Diversi modelli suggeriscono che i paesi la cui produttività agricola è messa a serio rischio dal surriscaldamento climatico dovrebbero convertire le loro economie, riducendo la dipendenza dal settore agricolo ed aumentano l’incidenza delle produzioni non agricole. Uno studio di Ishan Nath, della Princeton University, mostra come l’esposizione a temperature estreme possa portare ad una diminuzione della produttività del settore manifatturiero, a fine secolo, attorno al 2%. Di contro, secondo altre analisi, la perdita di produttività del settore agricolo supererebbe il 20%.

Sempre Nath ci ricorda che molto spesso i paesi a maggior rischio climatico sono anche quelli più legati alla produzione agricola. Si tratta di paesi economicamente arretrati che traggono dall’agricoltura il sostentamento minimo per la propria popolazione. Il quartile più povero della popolazione mondiale consuma il 91% di quanto produce il proprio settore agricolo. Percentuale doppia rispetto a quella del quartile più ricco. La quasi assenza di commercio internazionale e quindi di adeguate importazioni di prodotti agricoli, rende la posizione di questi paesi ancora più fragile di fronte alle sfide climatiche dei prossimi decenni.

Integrare questi paesi nel commercio internazionale, sostenendo – non solo finanziariamente – una loro conversione economica, potrebbe significativamente abbattere i costi del climate change sulle loro popolazioni.

Foto di pexels

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