Settimana scorsa la Fed è intervenuta sul mercato monetario per abbassare i tassi di interesse dei Fed Funds, saliti oltre il target fissato dalla banca centrale. La stessa Fed ha poi annuciato che tali operazioni continueranno fino al prossimo 10 ottobre. Ma cosa è successo? E, soprattutto, c’è da preoccuparsi?
Il mercato monetario è sicuramente uno dei più monitorati per capire lo stato di salute di un sistema finanziario. In esso si misura la fiducia tra gli istituti bancari, quantificata nel tasso di interesse praticato per i prestiti di denaro tra le banche. Negli USA l’approvigionamento di denaro avviene tramite strumenti come i Repo ed i fondi depositati presso la Fed (i Fed Funds) oltre la riserva obbligatoria.
Ad inizio della scorsa settimana il tasso di interesse praticato nei contratti Repo è letteralmente schizzato al 10%. Di conseguenza il tasso di interesse dei Fed Funds è salito oltre al target fissato dalla Banca Centrale. C’è da ricordare, infatti, che la Banca centrale americana sfrutta, attraverso operazioni di mercato aperto, il mercato monetario per trasmettere all’economia reale la propria politica. Per questo motivo l’istituto retto da Powell è prontamente intervenuto immettendo liquidità e raffreddando i tassi di riferimento dei Fed Funds. Tre interventi per oltre 200 miliardi di dollari. Interventi che, come comunicato dalla Fed, proseguiranno fino al 10 ottobre.
Ricordando come fu proprio il mercato monetario a lanciare i primi segnali della crisi finanziaria del 2008, molti analisti hanno guardato con preoccupazione a quanto stava accadendo. Ma cosa ha scatenato questo movimento anomalo dei tassi sui Repo?
Per capire la situazione bisogna partire proprio dalla crisi finanziaria del 2008, o meglio dalle sue conseguenze. Per rilanciare l’economia la Federal Reserve lanciò un ampio piano di Quantitative Easing, vale a dire un acquisto di titoli di stato per immettere liquidità nel sistema. Le banche, principali venditori di titoli di stato, si sono ritrovate perciò ad accumulare liquidità. Il risultato è stato un massiccio ricorso a strumenti per gestire questa ondata di liquidità. Tra gli strumenti utilizzati ci sono anche i depositi presso la banca centrale, nel frattempo divenuti fruttiferi di interessi anche per la parte superiore alla riserva obbligatoria.
Nel 2017, a poco più di un anno dal cambio di strategia della Fed, la banca centrale aveva in pancia, eredità del QE, qualcosa come 4,5 trilioni di dollari di titoli di stato. Al contempo le riserve accumulate dalle banche presso la Fed toccavano quota 2,2 trilioni di dollari.
Con la stabilizzazione dell’economia e l’abbandono della politica monetaria ultra espansiva, la Fed ha iniziato a ridurre il suo stock di titoli in bilancio, non reinvestendo i proventi delle obbligazioni in scadenza. In contemporanea, per finanziare il crescente deficit statale, sono aumentate le emissioni di nuovi titoli (una media di quasi 64 miliardi di dollari al mese di emissioni nel 2019, contro i circa 19 miliardi/mese del 2018). La combinazione di questi due processi non ha fatto altro che drenare liquidità dal sistema. Ad oggi il livello delle riserve accumulate dalle banche è sceso a 1,4 trilioni di dollari.
Il dato sulle riserve di liquidità “stoccate” presso la Fed dagli istituti bancari è centrale per capire cosa è successo settimana scorsa. Secondo molti analisti una valore delle riserve tra gli 1,3 e gli 1,5 trilioni di dollari viene considerato dalle banche come il limite minimo sotto al quale non andare per evitare squilibri. Se vogliamo, usando una metafora motoristica, potremmo considerarlo come il livello sotto al quale la banca entra “in riserva” e si accende la spia sul cruscotto.
Con un livello di riserve ai minimi basta un shock, anche temporaneo per provocare uno sconquasso sul mercato monetario. E lo shock temporaneo si è palesato proprio nei giorni scorsi. Un evento piuttosto normale, come una scadenza fiscale, ha richiesto agli istituti bancari un approvigionamento di liquidità extra. Raggiunta la soglia limite delle riserve, le banche hanno cominciato ad essere meno inclini al prestito di denaro ad altri istituti e questo ha fatto schizzare il tasso di interesse dei REPO. Il passo successivo è stato quello di utilizzare i Fed Funds, causandone l’aumento del tasso di interesse. Il resto l’abbiamo già visto.
In sintesi quanto successo è da considerarsi una temporanea scarsità di liquidità dovuta ad un picco di richiesta (soldi per pagare le tasse) e ad un aumentato livello di riserva ritenuto consono dalle banche per evitare problemi. Nulla a che vedere, quindi, con le cause sistemiche che scatenarono la crisi del 2008 (allora i tassi dei REPO aumentarono per la bassa qualità dei titoli dati in garanzia).
Nessuna crisi finanziaria alle porte, dunque, ma certamente un segnale a cui la banca centrale dovrà trovare un rimedio “strutturale”. Nel frattempo. come dicevamo in precedenza, le operazioni di “iniezione” di liquidità da parte della Fed continueranno, su base giornaliera, fino al 10 ottobre.
Foto di Brett Hondow