In economia il trilemma più famoso è quello elaborato oltre mezzo secolo fa da John Fleming e Robert Mundell sui rapporti economici internazionali, ma un altro tris di obiettivi impossibili da raggiungere contemporaneamente sembra emergere in questo complicato inizio di secolo. Ha a che fare con il cambiamento climatico, la lotta alla povertà e la sopravvivenza della classe media.
Ad argomentare questo nuovo grattacapo per l’economia mondiale è Dani Rodrik, professore di economia e politica internazionale alla Harvard Kennedy School, noto per la sua diffidenza nei confronti della globalizzazione “selvaggia” di inizio anni 2000. Nel libro The Globalization Paradox: Democracy and the Future of the World Economy (2011) aveva analizzato le crescenti tensioni tra globalizzazione economica, sovranità nazionale e democrazia, elaborando quello che poi è stato ribattezzato il trilemma della globalizzazione: i paesi non possono avere contemporaneamente un’economia globalizzata, una democrazia e una piena sovranità.
A distanza di oltre un decennio da quel libro, per certi versi profetico, Rodrik è tornato sull’argomento trilemma dalle colonne di Project Syndicate identificando un nuovo tris di problematiche che difficilmente si possono affrontare e risolvere in contemporanea: cambiamenti climatici, la riduzione della povertà globale e la protezione della classe media nei paesi ricchi.
Perseguire due di questi obiettivi – afferma Rodrik – spesso compromette il terzo. Ad esempio, le politiche per affrontare i cambiamenti climatici possono danneggiare le economie più povere o la classe media, mentre le misure per ridurre la povertà potrebbero ritardare gli interventi ambientali.
A partire dal dopo seconda guerra mondiale gli sforzi delle grandi economie mondiali si concentrarono sulla crescita economica e sulla stabilità sociale interna, aprendo successivamente le economie alle importazioni dai paesi in via di sviluppo. Uno schema che migliorò la situazione della classe media e ridusse la povertà, ma il tutto a scapito della sostenibilità ambientale.
Da quando gli effetti dei cambiamenti climatici sono diventati ineludibili e le disfunzioni della globalizzazione hanno cominciato ad aprire crepe nel tessuto sociale delle economie avanzate, attraverso l’indebolimento della classe media e delle strutture democratiche, i governi hanno cominciato a modificare le loro politiche cercando – siamo ai giorni nostri – di recuperare il rapporto con le classi medie dei propri paesi, riaffermando la necessità di qualche forma di protezionismo, investendo nella lotta al cambiamento climatico.
Questa nuova traiettoria politico-economica, afferma ancora Rodrik, se da un lato era largamente attesa, dall’altro viene vista come “fumo negli occhi” dai paesi poveri che temono l’alzarsi di nuovi muri tra loro e la prospettiva di migliorare la condizione economica dei propri cittadini. L’autore fa qualche esempio: “la recente serie di politiche industriali e altre regolamentazioni che sono spesso discriminatorie e minacciano di tenere fuori i beni manifatturieri dai paesi in via di sviluppo”; i sussidi green che negli Stati Uniti incentivano l’uso di input nazionali rispetto a quelli importati.
Anche modificando l’ordine di importanza delle problematiche, concentrandosi quindi su lotta al cambiamento del clima ed alla povertà, la coperta si dimostrerebbe ancora una volta dannatamente corta. A farne le spese sarebbe in questo caso la classe media dei paesi più ricchi. Da un lato il trasferimento di risorse dalle economie ricche a quelle più povere e dall’altro l’arrivo nei paesi ricchi di maggiori servizi e lavoratori provenienti dai paesi poveri, per migliorare le opportunità economiche di questi lavoratori, provocherebbero una riduzione delle risorse per politiche di sostegno alla classe media nazionale e nuove spinte al ribasso sui salari.
Secondo Rodrik il nuovo trilemma non è impossibile da risolvere ma richiede un enorme sforzo collaborativo – probabilmente mai messo in atto in precedenza – per affrontare il cambiamento climatico e la povertà globale, unito ad una riprogettazione dell’economia che dovrà vedere i servizi e non la produzione come serbatoio di posti di lavoro per la classe media.
Foto di Nicolas Quintana