Sulle tracce dei danni della politica monetaria restrittiva

Nelle scorse settimane sono usciti alcuni dati che, se messi assieme, mostrano i potenziali danni che la super ondata di politica monetaria restrittiva può causare alla crescita economica.

I dati sull’inflazione negli USA, pubblicati martedì scorso, hanno portato una ventata di ottimismo sui mercati azionari. Se l’inflazione cala, il ragionamento degli investitori, allora anche l’intensità della politica monetaria restrittiva è destinata a calare. Si sa, i mercati finanziari hanno una smisurata preferenza per il denaro a basso costo, ma in questo caso c’è anche qualcosa di più. Prima si interrompe la lunga serie di rialzi e più salgono le probabilità di evitare seri danni alla crescita economica (e quindi ai profitti, altro elemento che i mercati guardano accuratamente).

Ed i seri danni la politica monetaria restrittiva rischia di farli soprattutto sul settore immobiliare, un settore che nella storia recente non ha mancato di dare il suo apporto a crisi finanziarie di un certo rilievo, per usare un eufemismo. In questo senso sono molto interessanti tre dati usciti negli ultimi giorni e sui quali soffermiamo la nostra attenzione in questo post.

Il primo dato arriva dalla Gran Bretagna ed è un numero a sei zeri: 4 milioni. Stando ad un sondaggio effettuato dalla Banca d’Inghilterra, infatti, nel 2023 il numero di famiglie che subiranno un significativo incremento degli oneri finanziari derivanti dai mutui e dai prestiti in atto è proprio di 4 milioni. Entro tre anni il 70% di chi ha contratto un prestito vedrà salire il costo della rata. Chi rifinanzierà un mutuo del 2023, continua la BoE, vedrà aumentarsi la rata mediamente di 250 sterline al mese. Certo, tenta di rassicurare il governatore Bailey, la situazione dei bilanci familiari è nettamente migliore rispetto al 2008 ed al 1990, ma i maggiori oneri finanziari sono destinati a pesare, specie se questa configurazione di tassi alti dovesse durare per molto tempo.

Il secondo dato arriva ancora dal Regno Unito ed è strettamente collegato a quanto scritto nel paragrafo precedente. Se da un lato aumentano gli oneri finaziari, dall’altro lato vendere casa diventa più complicato. Stando ad una ricerca di Rightmove, nel mese di novembre chi ha deciso di vendere un immobile sta abbassando le pretese (prezzo) a ritmi che non si vedevano così elevati da almeno 4 anni a questa parte. E la proiezione è per un ulteriore calo del 2% nei prossimi 12 mesi. In dicembre il rialzo dei prezzi annuo – sempre per Rightmove – si attesta al 5.6%. Per capire la situazione basta dire che appena tre mesi fa l’incremento era dell’8.7%.

Il terzo dato è una sorta di diapositiva delle conseguenze che possono derivare dall’applicazione simultanea di maggiori costi e minor valore degli asset immobiliari. Ed arriva dalla Svezia. Il caso svedese è di per sé emblematico della situazione. Il boom immobiliare alimentato dal lungo periodo di tassi bassi si sta trasformando in un incubo. Dal massimo toccato nel 2022, i prezzi si trovano ora 12 punti percentuali più sotto e le stime degli analisti (un calo complessivo del 20% dei prezzi) iniziano a traballare. Sul fronte finanziario i tassi sono sostanzialmente triplicati nel giro di otto mesi e questo spinge le famiglie svedesi a rivedere le priorità sui consumi. Il risultato è che la Svezia rischia di far registrare il peggior dato sul PIL tra i 27 paesi che fanno parte dell’Unione Europea. Stando ai dati OCSE nel 2023 il PIL è atteso in contrazione dello 0.6% (per l’Eurozona la previsione è a +0.5%, per la Gran Bretagna è -0.4%).

In definitiva questi tre dati ci raccontano l’altra parte della storia, quella che i mercati finanziari al momento tendono a non considerare troppo. La battaglia contro l’inflazione non può non lasciare strascichi e l’entità di questi sta tutta nella lunghezza del periodo che trascorrerà tra la fine del rialzo dei tassi e l’inizio di una nuova fase di politica monetaria espansiva.

Foto di günter

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