Il fenomeno della globalizzazione è stato in principio visto come strumento per abbassare i prezzi senza effetti collaterali. Il tempo ed i dati hanno mostrato che così non era.
La crisi scatenata dalla pandemia ha portato nuovamente al centro del dibattito economico il tema della globalizzazione. Dopo oltre un decennio nel quale il commercio internazionale ha vissuto un’espansione da record, lo stop imposto dal Sars-Cov2 ha rotto l’incantesimo, e così politica ed economia si sono rese conto di avere tra le mani qualcosa da maneggiare con molta più attenzione di quanta non ne avessero prestato fino a quel momento.
L’evoluzione di questo “processo di conoscenza” ci viene raccontata da David Dorn e Peter Levell in un bel lavoro pubblicato dal CEPR ad inizio settimana. Il tema è la relazione tra commercio internazionale, mercato del lavoro e prezzi. I due autori partono con il ricordarci che, tra la fine dello scorso secolo ed il primo decennio del 2000, la maggior parte degli economisti era concorde nell’affermare che l’impatto della globalizzazione sul mercato del lavoro era pressochè minimo e che l’effetto più evidente di un più intenso commercio internazionale era il significativo calo dei prezzi.
Le cose, proseguono Dorn e Levell, sono cambiate a partire dal 2010 in poi, quando la globalizzazione ha inziato a stabilizzarsi e sono emerse le prime crepe. Alcuni studi mostravano chiaramente l’effetto negativo sul settore manifatturiero USA dell’aumento delle importazioni dalla Cina; di come queste influivano sui livelli occupazionali e sulle prospettive economiche soprattutto delle classi di lavoratori a bassa specializzazione. Lasciati a piedi dalle industrie colpite dalla concorrenza dei beni importati, infatti, molti lavoratori hanno faticato non poco nel trovare una nuova occupazione. Per mancanza di specializzazione o per difficoltà nel muoversi da una regione all’altra del paese. Allo stesso tempo alcuni studi osservavano come la tanto celebrata discesa dei prezzi non fosse stata a beneficio di tutte le classi di reddito, ma in gran parte solo a quelle più agiate.
I dati elaborati dagli stessi Dorn e Levell ci danno ulteriori conferme sull’impatto della globalizzazione sul mercato del lavoro e, per caduta, sulla disuguaglianza economica nelle economie avanzate, ma ci dicono qualcosa di più. Il caso tedesco, infatti, mostra che la perdita di competitività di alcune industrie rispetto a quelle cinesi è stata compensata dalla crescita di settori esportatori verso la Cina. In paesi come Germania e Svizzera, capaci di attivare canali di esportazione verso la Cina, gli effetti dell’aumento dell’import cinese sul mercato del lavoro sono rimasti sostanzialmente sotto controllo.
Non potendo cancellare un fenomeno di tale portata ed importanza, com’è la globalizzazione, l’esperienza degli ultimi vent’anni deve indurre ad alcune riflessioni. Che la globalizzazione funziona in un’economia aperta dove importazioni ed esportazioni servono a bilanciare gli effetti sul sistema produttivo interno di un paese. Che la politica ha un duplice ruolo nella vicenda: deve garantire rapporti commerciali internazionali improntati alla bidirezionalità; deve incentivare la formazione continua della popolazione lavorativa e rendere più sostenibile il trasferimento di forza lavoro tra industrie e zone geografiche del paese.
Foto di druckfuchs