Deglobalizzazione e resilienza economica in tempi di pandemia? Non c’è un automatismo

Dai componenti per automobili fino alle mascherine. Con la pandemia ed il conseguente lockdown, molti si sono accorti di quanto sia importante il ruolo della global supply chain e delle conseguenze del suo “inceppamento”. Ma la deglobalizzazione puà risolvere il problema?

Uno dei primi effetti dell’epidemia di covid-19, quando ancora era un problema solo cinese, è stato il progressivo inceppamento della catena di distribuzione globale, quel complesso meccanismo per il quale un prodotto finito, disponibile nel negozio sotto casa, è in tutto o in parte realizzato con componenti provenienti da altri paesi sparsi nel mondo. Il disallineamento della global supply chain, come la si definisce in inglese, ha causato dapprima ritardi nelle consegne, poi il blocco di intere linee di produzione. La pandemia, obbligando i paesi coinvolti a misure di contenimento dell’infezione, ha moltiplicato gli effetti di tale disfunzione.

Di fronte a tutto ciò la risposta di molti è stata quella di ipotizzare un passo indietro, vale a dire ridurre la dipendenza dai fornitori esteri e tornare a produrre nel proprio paese gran parte degli input necessari all’industria nostrana. Questo processo, che è stato a volte chiamato deglobalizzazione, secondo i promotori, garantirebbe una maggior resilienza dell’economia interna di fronte ad eventi pandemici o a guerre commerciali. Ma è davvero così?

A questa domanda ha provato a dare risposta un gruppo di ricercatori di tre università statunitensi . Barthélémy Bonadio, Zhen Huo, Andrei Levchenko e Nitya Pandalai-Nayar hanno elaborato un modello econometrico per studiare gli effetti di un lockdown sull’economia globale, analizzando 64 paesi e 33 settori industriali e simulando l’effetto quarantena attraverso la riduzione dell’offerta di lavoro.

Il risultato di questo studio, che è consultabile da qui, ci dice che solo un terzo della perdita media di PIL, che nel complesso è pari al 31,4%, è dovuto alle disfunzioni della catena di distribuzione globale. Il dato può essere letto anche in un altro modo: mediamente, se uno dei 64 paesi dello studio decidesse di non imporre un lockdown alla propria economia, gli effetti negativi veicolati dalla global supply chain porterebbero comunque ad una contrazione dell’11% del PIL.

Chiarito il peso della global supply chain resta da chiedersi se una deglobalizzazione potrebbe portare benefici. Inserendo nel modello econometrico l’ipotesi di una rinazionalizzazione della produzione, eliminando ogni forma di global supply chain, un lockdown globale porterebbe ad una perdita media di PIL del 32.3%, peggio del 31.4% ottenuto in regime di globalizzazione.

La conclusione a cui si giunge è che la deglobalizzazione, in presenza di uno shock in stile covid-19, non rende automaticamente un sistema economico più resiliente. Se da un lato si riduce la dipendenza dai fornitori esteri, dall’altro si aumenta quella dai fornitori interni. In presenza di un lockdown, che blocca anche i fornitori interni, la situazione non porta vantaggi.

Certo, la severità del lockdown applicato cambia qualcosa nei risultati. Un modello di contenimento meno stringente potrebbe mantenere attiva la catena di approvigionamento interno, riducendo le conseguenze sul PIL. Lo studio però non tiene conto della crisi sanitaria e dei suoi effetti sui consumi, effetti che un lockdown meno severo tenderebbe a far durare più a lungo nel tempo.

Foto di Free-Photos

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