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Dazi e deficit commerciale, teoricamente funzionano

In presenza di determinate condizioni e tralasciando gli effetti sul benessere collettivo (non poca cosa), i dazi possono effettivamente ridurre il deficit commerciale

Il dibattito sul ruolo dei dazi nell’equilibrio commerciale è tornato d’attualità, ma quanto ne sappiamo davvero sugli effetti di lungo periodo? Un recente studio condotto da due economisti del MIT, Arnaud Costinot e Iván Werning, e pubblicato dal National Bureau of Economic Research, analizza il legame tra dazi permanenti e deficit commerciali.

Una premessa è d’obbligo. La ricerca di Costinot e Werning non valuta se i dazi siano desiderabili in termini di benessere (spoiler: non lo sono), ma si concentra esclusivamente sul loro impatto effettivo sui saldi commerciali. In altre parole la ricerca prova a verificare l’efficacia dell’operazione chirurgica a cui si vuole sottoporre il commercio internazionale, tralasciando la condizione post operatoria del paziente.

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Utilizzando un modello neoclassico di commercio internazionale in due periodi, con preferenze e tecnologie generali, gli autori mostrano che l’effetto dell’imposizione di dazi sull’equilibrio commerciale dipende da una sola variabile chiave: la forma della curva di Engel che rappresenta il rapporto tra importazioni e esportazioni aggregate. In termini semplici, se questa curva è convessa, i dazi tendono a ridurre il deficit commerciale. Se invece è lineare, l’effetto risulta neutro.

Piccola pausa. Ma cos’è la curva di Engel? La curva di Engel è un grafico che mostra come cambiano i consumi di un bene quando il reddito di una persona (o di un paese) aumenta. In presenza di beni “normali” l’aumento della ricchezza si accompagna ad un aumento dei consumi. In presenza di beni “inferiori” l’aumento della ricchezza sposta il consumo da quel bene ad altri. Nello studio di cui stiamo parlando l’interpretazione della curva di Engel è questa: in un paese che “diventa più ricco” e importa molto di più rispetto a quanto esporta (cioè se la curva è “convessa”), allora l’imposizione di dazi può effettivamente aiutare a ridurre il deficit commerciale.

La convessità si verifica in presenza di un “margine estensivo” attivo: cioè quando alcuni beni passano da essere importati a non essere scambiati, oppure da non essere scambiati a essere esportati. È proprio questo comportamento a livello microeconomico che amplifica gli effetti delle tariffe sul commercio aggregato. In termini semplici: il gioco funziona se i consumatori smettono di acquistare beni importati o la produzione di questi beni viene fatta in loco.

Un risultato interessante dello studio è che tariffe sufficientemente elevate possono condurre all’autarchia (assenza di scambi), azzerando così completamente il deficit. Tuttavia, nella maggior parte dei casi realistici – con preferenze non omotetiche, cioè quando al variare del reddito varia anche la proporzione di consumo di un determinato bene, e mercati dinamici – le tariffe influenzano effettivamente il deficit, ma in misura variabile.

Gli autori concludono che, sebbene le tariffe possano ridurre il deficit commerciale, ciò non implica che dovrebbero essere usate a tale scopo. Anzi, dal punto di vista del benessere collettivo, restano strumenti distorsivi che generano inflazione e riducono il potere d’acquisto dei consumatori.

Foto di Bellergy RC

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