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Le nuove “armi” della Cina nella guerra commerciale

Un recente studio pubblicato su The Washington Quarterly ci ricorda come le armi della Cina in caso di guerra commerciale si siano evolute nel tempo divenendo sempre più sofisticate e potenti.

Quando si parla di guerra commerciale si ha spesso la sensazione di essere di fronte ad una definizione iperbolica, forse non riuscendo a capire del tutto la pericolosità di una sfida tra paesi nel campo del commercio internazionale.

Le realtà è che in una guerra commerciale, se è vero che non esistono vincitori, è vero anche che esistono differenti gradi di sconfitta. L’esito finale dipende anche dalle armi che un paese ha a disposizione per fiaccare le resistenze dell’avversario. E visto che l’attualità ci ha riportati dritti dritti al conflitto tra USA e Cina, diventa particolarmente istruttiva la lettura dell’ultimo studio di Evan S. Medeiros e Andrew Polk, pubblicato su The Washington Quarterly e intitolato China’s New Economic Weapons

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Lo studio analizza le nuove armi che Pechino ha a disposizione per esercitare il suo potere commerciale all’estero. Ciò che emerge da questa analisi è un cambiamento di scala e di strategia avvenuto negli ultimi anni. Non più (o non solo) dazi e sanzioni, ma strumenti mirati, sofisticati e calibrati per colpire specifici interessi economici e politici dei suoi interlocutori. Ma quali sono queste armi, Medeiros e Polk ne hanno individuato una lista molto dettagliata, da cui si possono trarre alcune linee guida. Vediamole.

Il controllo delle materie prime critiche

Uno degli strumenti più evidenti di questa strategia è il controllo delle esportazioni di materie prime essenziali. Negli ultimi anni, la Cina ha mostrato di essere disposta a bloccare — o minacciare di bloccare — l’export di materiali strategici come il gallio o il germanio, due componenti fondamentali per la produzione di semiconduttori, dispositivi elettronici e tecnologie militari. La mossa è particolarmente efficace perché Pechino detiene una posizione dominante nella produzione globale di questi minerali. In pratica, sostengono gli autori, si tratta di una forma moderna di embargo selettivo: non generalizzato, ma cucito su misura, con l’obiettivo di mettere pressione su singoli paesi, aziende o settori industriali in momenti chiave.

La leva commerciale e il “boicottaggio a distanza”

Un altro strumento è quello che potremmo definire il “boicottaggio statale”. In varie occasioni, la Cina ha reagito a decisioni politiche di altri governi con restrizioni informali sulle aziende di quei paesi. È successo con la Corea del Sud, dopo il dispiegamento del sistema antimissilistico THAAD, quando i prodotti sudcoreani sono scomparsi dagli scaffali dei supermercati cinesi. È successo con la Lituania, per il suo riavvicinamento a Taiwan, e con l’Australia, dopo le richieste di un’indagine sull’origine del COVID-19. Queste misure spesso non si presentano sotto forma di provvedimenti ufficiali. Sono pressioni esercitate tramite normative oscure, ispezioni improvvise o rallentamenti doganali. Ma l’effetto è chiaro: costringere le aziende a fare scelte “politicamente corrette” agli occhi di Pechino. Tra il 2018 ed il 2021 sono fioriti i provvedimenti governativi in tal senso. La creazione della cosiddetta “Unreliable entity” list”, lo State Administration for Market Regulation (SAMR) per le questioni legati all’antitrust e alle acquisizioni da parte di aziende straniere, l’Anti Foreign Sanctions Law.

Secondo Medeiros e Polk la vera forza di tutte queste nuove armi economiche è la dipendenza. Negli anni, la Cina è riuscita a posizionarsi come hub insostituibile in diverse filiere globali: dai farmaci ai pannelli solari, dai metalli rari ai prodotti tessili. Questa centralità rende molto più difficile per altri paesi rispondere con durezza alle pressioni cinesi. Chi è troppo esposto, concludono gli autori dello studio, tende a evitare lo scontro. E proprio qui risiede la potenza — e l’ambiguità — del modello cinese: la pressione avviene senza dichiarazioni ufficiali, senza trattati, senza guerre. È fatta di segnali, di “punizioni selettive”, di mosse economiche che mandano un messaggio preciso, ma che restano formalmente difendibili.

Imbarcarsi in una guerra commerciale con la Cina, quindi, significa confrontarsi con un paese che negli anni ha costruito un arsenale di armi commerciali sempre più sofisticate, abituato a navigare nelle acque spesso poco limpide del commercio internazionale, protagonista di molti degli squilibri che hanno reso la globalizzazione così come la conosciamo. La domanda è: ne sono consapevoli gli Stati Uniti?

Foto di Markus Winkler

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