La flessibilità? C’è già, punto!

C’è chi giura d’averla vista, chi sembra averne sentito parlare e chi la nega con fermezza. Di cosa stiamo parlando? Ma di flessibilità ovviamente.  A Bruxelles la chiedono a gran voce i capi di governo dei paesi con qualche lacuna sui conti pubblici, a Berlino la considerano come l’ennesimo tentativo di svicolare dagli impegni presi da parte dei sopra citati paesi lacunosi.

Ma nella realtà di cosa stiamo parlando? Esiste un unico concetto di flessibilità oppure ogni stato la declina a seconda delle esigenze (interne) del momento?  Vediamo un po’ le carte.

Da Berlino dicono che la flessibilità c’è già nei documenti ufficiali dell’unione (patto e fiscal compact in testa), sarà vero? Nel patto si legge:

Se la crescita si deteriora inaspettatamente, gli Stati con deficit sopra il 3% possono avere più tempo per correggerlo, a patto che facciano gli sforzi strutturali necessari

Questa concessione, che troviamo nel capitolo del Patto dedicato alla “flessibilità in tempo di crisi”, è già stata applicata a Grecia, Spagna e Francia che, viste le oggettive difficoltà economiche, potranno rientrare sotto il 3% in un lasso di tempo più ampio. La contropartita per questa concessione è l’impegno a fare tutti gli sforzi strutturali necessari per rimettersi in riga (le riforme, quindi).

Ma andiamo avanti e vediamo nel famigerato Fiscal Compact cosa troviamo:

Si può deviare temporaneamente dall’obiettivo di medio termine o dal percorso di avvicinamento a tale obiettivo solo in circostanze eccezionali”, ovvero “eventi inconsueti che abbiano rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica amministrazione oppure periodi di grave recessione economica

Si, avete ragione.  Le circostanze che permettono di deviare dall’obiettivo sono parecchio stringenti e pervase di quel senso di eccezionalità e gravità che si possono riassumere in: rischio default, crisi del sistema bancario, grave recessione economica. Più che flessibilità in questo caso potremmo parlare di pietà poichè i termini entro i quali questa concessione può avere luogo profumano di baratro.

Anche la famosa “clausola degli investimenti” permette temporanee deviazioni dai target europei  per investimenti in infrastrutture pubbliche co-finanziate dall’unione, a patto che ci sia un adeguato piano di riduzione del debito. Una definizione più precisa, eccola:

La clausola prevede che, a certe precise condizioni, i paesi con il deficit sotto il 3% del Pil (“fase preventiva” del patto di Stabilità) possano deviare dall’obbligo di ridurre ulteriormente il deficit/Pil verso l’obiettivo di medio termine (0,5%), pur restando sempre sotto il 3%, per fare investimenti favorevoli alla crescita, limitati al cofinanziamento dei programmi strutturali dei fondi di coesione comunitari e a quelli delle infrastrutture di interesse europeo

Sin qui la flessibilità contabile che l’unione ha già sancita nei sui documenti guida. Una flessibilità che abbiamo definito “contabile” proprio perchè non prevede nelle sue applicazioni, salvo la clausola degli investimenti, la sua applicazione in presenza di un piano di crescita del paese membro.

Quella che servirebbe all’Europa è una flessibilità politica più che contabile, politica con la P maiuscola ovviamente. Un meccanismo che permetta ai paesi membri di presentare un piano di investimenti in infrastrutture (anche il capitale umano è un’infrastruttura del paese) dettagliato e fattibile e  di poterlo attuare senza vincoli di deficit, senza cioè che la politica fiscale espansiva si ritorca contro chi la attua. La soluzione ideale aveva un nome ben preciso, gli eurobond, ma la forte contrarietà dei paesi “a tassi di debito negativi” ha affossato ogni discussione. La soluzione alternativa sarebbe quella di considerare la spesa per investimenti come un componente “neutro” e non passivo del bilancio statale, in fondo, se investo, sto creando i presupposti per la futura produzione di ricchezza e quindi i costi di tale investimento non dovrebbero essere equiparati ad altre voci di spesa ben più negative.

Andiamo in questa direzione? IlSole24ore del 24 giugno scorso:

Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha rassicurato ieri i componenti della segreteria del suo partito, la Cdu, che le regole del Patto di stabilità sul rigore fiscale non verranno cambiate, nonostante le pressioni di alcuni partner europei. Berlino è tuttavia disponibile a utilizzare i margini di manovra già contenuti nelle regole attuali. «Si tratta di valutarne l’appplicazione nei casi singoli», ha detto il portavoce del cancelliere, Steffen Siebert, nell’abituale briefing con la stampa.

Ansa nel 25 giugno:

Angela Merkel al Bundestag: ”Il patto di stabilità e crescita è un presupposto straordinario” per risolvere i problemi dell’Ue: ”stabilisce un chiaro indirizzo e limiti da una parte, e un ampia serie di strumenti di flessibilità dall’altra. Dobbiamo usarli entrambi, esattamente come abbiamo fatto in passato”

Spazza il campo da ogni dubbio il ministro Padoan che affermava all’Ansa il 25 giugno:

La flessibilità già c’è, bisogna usarla al meglio. Non servono nuove regole ma bisogna usare al meglio quelle esistenti.

Lo stesso ministro definiva un “finto dibattito” (finto, capito?) quello sul Patto di stabilità.

Se ne deduce che non ci saranno nuove norme o ridefinizioni dei limiti della flessibilità sui conti pubblici e che quindi ci teniamo la flessibilità contabile già delineata.  Non ci resta che aggrapparci alla clausola sugli investimenti (con relativa battaglia sui requisiti) che però ci sarà concessa solo se metteremo in pratica quell’elenco di riforme che l’UE continua a sventolarci sotto al naso e che prima si chiamavano, giornalisticamente, “compiti a casa”.

Si è capito che non è cambiata una virgola vero?

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