Short-termism e grandi investitori istituzionali, la relazione pericolosa

Un recente studio mostra come la tendenza sempre più diffusa tra i grandi investitori istituzionali di vincolare le strategie di investimento ad un benchmark possa amplificare le variazioni di prezzo delle azioni e rendere ancora più rischioso l’atteggiamento di short-termism dei manager.

In analisi tecnica si è soliti dire che il prezzo di un’azione contiene al suo interno tutte le informazioni relative alla società emittente. Se prendiamo per buona questa affermazione, allora vuol dire che nel prezzo dovrebbe essere incorporata anche la valutazione della capacità di produrre flussi di cassa nel tempo da parte della società. Da qui si potrebbe concludere che l’obiettivo del management di quella società sarà di lavorare affinchè il flusso di cassa migliori nel lungo periodo.

Il peso sempre maggiore acquisito dai mercati finanziari nell’apporto di capitali alle società e la presenza sul mercato di player sempre più mastodontici rischia però di mandare in frantumi il ragionamento sopra descritto, rovesciandone i termini. Il prezzo, da strumento di informazione sulla “salute” dei fondamentali, diventa così il fine dell’attività di management. E’ il cosiddetto fenomeno del short-termism, vale a dire il focalizzare le attenzioni e le politiche gestionali sull’andamento del prezzo nel breve termine sacrificando la programmazione di lungo termine.

Sulla relazione tra short-termism e grandi investitori istituzionali è uscito recentemente un contributo di Dimitri Vayanos (CEPR) e Paul Woolley (London School of Economics). I due economisti si soffermano sulla tendenza, sempre più massiccia, da parte dei grandi player dell’investimento (fondi pensione, fondi comuni, fondi sovrani) di ancorare in maniera molto stretta la gestione del patrimonio ad un indice di riferimento. Questo, sottolineano Vayanos e Woolley, porta ad una eccessiva attenzione ai prezzi nel breve termine e quindi incentiva ulteriormente comportamenti di short-termism da parte dei manager delle società quotate.

In che modo i vincoli di benchmark portano a questa “miopia” di investimento? Sostanzialmente incentivando un tipo di investimento basato sul momentum e via via meno attento ai fondamentali di una società o di un settore. Prendiamo, ad esempio, un gestore che ha come vincolo quello di mantenere una posizione nella società A entro il 6% di scostamento rispetto al peso che la stessa società ha nell’indice di riferimento. Supponiamo che questa società rappresenti il 10% del paniere di riferimento. Il gestore ritiene la società sopravvalutata e la posizionerà al minimo consentitogli dal vincolo, vale a dire al 4% (ossia i 6 punti percentuali dal riferimento). Se il peso di quest’azione sale al 20% nel benchmark il gestore sarebbe disposto ad aumentarne il peso in portafoglio al massimo all’8%, ma sarà invece costretto a portare la quota al 14% per soddisfare il vincolo del +/-6% imposto.

L’esempio riportato dai due economisti fa emergere chiaramente la distorsione di prezzo che deriva da questa pratica. La valutazione dei fondamentali viene “sacrificata” in nome di vincoli di aderenza al benchmark di riferimento. Le variazioni di prezzo vengono amplificate ed il fenomeno è asimmetrico, vale a dire che risulta più forte nei trend rialzisti rispetto a quelli ribassisti.

Se i manager sempre più “affetti” da short-termism badano ai prezzi nel breve periodo e se questi ultimi sono amplificati dall’atteggiamento dei grandi investitori istituzionali, si può ben capire quali rischi possano generarsi sui mercati finanziari. Fra tutti un significativo aumento della volatilità ed una perdita di correlazione fra prezzo di un’attività e rischio connesso.

Foto di Tumisu

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