Nella conferenza stampa di giovedì scorso la governatrice della BCE, Christine Lagarde, ha risposto ad una domanda sul suo possibile addio alla banca centrale mostrando la collana che indossava e che recava una scritta significativa: “in charge”, ossia “al comando”. Un messaggio chiaro sulla sua volontà di portare a termine il mandato di governatrice, ma che potrebbe benissimo adattarsi anche alla posizione, in prima linea e davanti a tutti, dell’istituto centrale europeo nella fase di normalizzazione della politica monetaria.
Abituati da decenni ad una BCE in affanno nel cercare di sopperire alle debolezze dell’economia dell’area, l’attuale situazione appare nuova e per certi versi sorprendente, ma altro non è se non uno dei tanti effetti del surplus di entropia scaricato dall’amministrazione Trump sull’economia mondiale e di riflesso sulle scelte di politica monetaria.
Già, perchè sull’altra sponda dell’oceano l’inquilino della Casa Bianca, tra un battibecco con Musk e qualche battuta infelice con il cancelliere Mertz, non ha mancato di ritornare sull’argomento FED e sulla lentezza di J Powell nel ridurre i tassi di interesse. Eccoci al punto: perche la FED non taglia i tassi di interesse? Scelta politica, come mormorano i MAGA, o c’è dell’altro? Per certi versi potrebbero c’entrare entrambe gli aspetti.
La prima grande motivazione sul perchè la FED non abbia ancora tagliato ulteriormente i tassi di interesse è – e non potrebbe essere altrimenti – strettamente macroeconomica. Il board vuole vederci chiaro sui reali effetti dei dazi sull’economia statunitese e vuole farlo per tutto il tempo che il mercato del lavoro gli concederà. Spieghiamoci meglio. Se guardiamo agli ultimi report sull’andamento del settore privato statunitense (ISM, Philly Fed, CFNAI) c’è un filo conduttore che non sfugge: la pressione sui prezzi degli input è in aumento e questo in larga parte per le complicazioni sulla catena di approvvigionamento dovute all’incertezza sui dazi. Questo significa che se la situazione non vede una definitiva chiarificazione le aziende, arrivate al limite massimo di riduzione dei margini di profitto, saranno costrette a passare i maggiori costi sui consumatori finali e questo significherà un aumento dell’inflazione. Ora, la cosa può accadere o no, ma cosa succederebbe se accadesse e la FED si trovasse con i tassi già molto bassi? La risposta è semplice: i mezzi per rispondere ad un’improvvisa impennata dei prezzi sarebbero limitati e quindi poco efficaci. Detta in altri termini, la banca centrale si troverebbe nella spiacevole situazione di dover inseguire l’inflazione, tornando ad alzare i tassi repentinamente dopo averli abbassati, con tutti i rischi che ne conseguirebbero sul fronte delle aspettative di inflazione e sui consumi.
Questo, in estrema sintesi, è il motivo principale che spinge Powell e la FED a prendere tempo. Un tempo non infinito, ovviamente. Come dicevamo in precedenza c’è un indicatore che può far cambiare tutto: l’andamento del mercato del lavoro. Solo se l’occupazione andasse deteriorandosi in maniera consistente (magari guardando anche alla fino ad ora infallibile regola di Sahm) il board interverrebbe senza indugi per evitare che la trappola diventi la stagflazione.
Ma dicevamo che non è poi tanto da escludere che esista anche una motivazione politica nella lentezza della FED. Qui siamo nel campo delle congetture giornalistiche, ma più di qualche cronista ha osservato che la volontà di ribadire la propria indipendenza, scegliendo i tempi delle prossime mosse di politica monetaria e non facendosele imporre, potrebbe essere l’altra grande motivazione del perchè la FED non ha ancora deciso di tagliare i tassi di interesse.
Politica a parte, il cuore della risposta alla nostra domanda rimane la motivazione macroeconomica e sondando i mercati dei derivati è anche possibile provare a indicare la data del primo dei due tagli dei tassi previsti per il 2025. Come riporta l’agenzia Bloomberg, infatti, la lettura degli interest rate swaps mostra una probabilità molto bassa (il 25%) di un taglio a luglio. La percentuale sale però al 90% per settembre, con un previsione entro il 2025 di una riduzione complessiva di 50 punti base del riferimento dei Fed Funds.