Ultimamente si parla sempre più spesso di “debasement trade”: un approccio d’investimento che scommette sulla svalutazione delle principali valute tradizionali, in particolare del dollaro USA, e sulla conseguente fuga verso beni «rifugio» o considerati più resistenti all’erosione del potere d’acquisto. Ma da dove nasce questo fenomeno? È davvero in atto o si tratta della solita narrazione utile ad alimentare i dibattiti sui media?
Negli ultimi mesi i mercati finanziari hanno mostrato alcuni trend degni di nota: innanzitutto, il prezzo dell’oro è balzato a nuovi massimi, superando la soglia dei 4.000 dollari l’oncia nel 2025, con guadagni dell’ordine del +50% o superiori (al netto delle ultime sedute). Parallelamente, il dollaro americano si è indebolito sensibilmente rispetto alle altre valute principali: l’indice DXY registra una flessione superiore al 10% da inizio anno.
Questi elementi hanno alimentato l’attenzione attorno al concetto di “debasement trade”. Con questo termine si indica una strategia d’investimento che mira a beneficiare della svalutazione reale di una valuta (in questo caso il dollaro USA) e del contemporaneo aumento del valore di asset considerati “rifugio” o alternativi. L’idea di fondo è che, se gli investitori ritengono che la valuta di riserva mondiale stia perdendo potere d’acquisto — a causa di politiche fiscali espansive, debito pubblico elevato o banche centrali percepite come meno indipendenti — essi possano reagire spostando capitali lontano dalla valuta soggetta a “debasement” e verso asset ritenuti più capaci di conservarne il valore.
Tra i principali beneficiari di questa strategia c’è sicuramente l’oro, da sempre considerato la forma più pura di riserva di valore. Il suo prezzo ha toccato nuovi record nel 2025, sostenuto dalla percezione di un indebolimento strutturale del dollaro. Seguono Bitcoin e le criptovalute, viste da molti come una versione digitale dell’oro: beni finiti, decentralizzati e indipendenti dalle banche centrali.
Ma sul fatto che sia effettivamente in corso una progressiva disaffezione agli asset statunitensi ci sono forti dubbi. Innanzitutto, se il debasement trade fosse pienamente operante, ci si aspetterebbe un forte indebolimento del dollaro e un aumento dei rendimenti dei Treasury USA, spinti da inflazione e rischio valutario.
Ma in questo “strano” 2025, anche l’andamento dei titoli di stato statunitensi, in particolare quelli a lungo termine, ha mostrato una dinamica inusuale: nonostante i timori legati a inflazione e debito pubblico elevato, infatti, i rendimenti decennali sono scesi, contraddicendo da un lato il tradizionale schema di rialzo in contesti inflazionistici e dall’altro una crisi della domanda. Il dollaro, inoltre, ha sì perso terreno nei confronti delle altre valute internazionali, come detto in precedena, ma nel complesso le sue quotazioni rientrano ancora in una zona di sostanziale stabilità.
Altro elemento che alimenta i dubbi è l’effetto del debasement trade sui mercati azionari. Se il “debasement” fosse reale e strutturale, il suo effetto sull’azionario sarebbe in ultima analisi negativo. Una perdita di fiducia nella valuta riduce il valore reale dei profitti, innesca fuga di capitali e spinge le banche centrali verso politiche più restrittive. Anche se alcune società globali o legate a beni reali potrebbero beneficiarne nominalmente, nel complesso la distruzione di valore reale e l’aumento dell’incertezza tenderebbero a pesare sui mercati azionari. Al netto della volatilità degli ultimi giorni, non sembra di poter dire che sia in atto una riduzione dell’esposizione sull’azionario statunitense.
L’impressione è che per il momento si possa concludere sostenendo che il “debasement trade” sia sicuramente una narrativa forte,ma non ancora una tendenza conclamata. Forse, per spiegare certi movimenti in atto sui mercati finanziari, sarebbe più opportuno concentrarsi su un altro concetto, quello di diversificazione. Mossa che in tempi di incertezza risulta fondamentale per non rischiare di avere troppe uova in un cesto solo.
E successivamente occorrerebbe riflettere sull’esplosione del retail trading e del sempre più diffuso effetto FOMO. Ma il discorso ci porterebbe troppo lontano…
Foto di Thomas Breher






