Il Fondo Monetario Internazionale torna a lanciare un segnale d’allarme: il debito pubblico globale continua a crescere, e rischia di diventare un fardello troppo pesante per molte economie. Ma accanto al monito, il Fiscal Monitor pubblicato a ottobre introduce anche una riflessione meno scontata: non tutto il debito è uguale. Se usato in modo strategico, può essere una leva per la crescita e la resilienza. È, in fondo, la differenza tra “debito cattivo” e “debito buono”.
Secondo l’IMF, il debito pubblico globale supera ormai i 97 trilioni di dollari, in aumento di oltre 15 punti percentuali rispetto ai livelli pre-pandemia. La tendenza non accenna a invertire la rotta: le politiche fiscali espansive adottate per sostenere la ripresa, unite ai costi crescenti per la transizione energetica e l’invecchiamento della popolazione, continuano a gonfiare i conti pubblici.
La fotografia risulta più definita se la accompagniamo con qualche numero: il debito pubblico globale potrebbe arrivare a superare il 100 % del PIL entro il 2029 e toccare – in presenza di scenari particolarmente avversi – il 123% della ricchezza prodotta entro la fine del decennio. Si tratta di livelli che il mondo non ha più sperimentato dalla fine della seconda guerra mondiale. Già oggi, in media, per le economie avanzate il rapporto debito pubblico/PIL è salito a oltre l’110% e per un gran numero di paesi — quasi un terzo del totale, coprendo l’80 % del PIL mondiale — il debito è non solo più alto rispetto al pre-pandemia, ma cresce anche più rapidamente. Secondo il Fiscal Monitor dell’FMI una percentuale che va dal 25% al 28% della spesa pubblica è destinata al pagamento di stipendi.
Cresce il debito, quindi, ma allo stesso tempo l’economia non cresce più con ritmi in grado di controbilanciarlo. Il Fondo ricorda come la produttività del lavoro non si sia mai del tutto ripresa nel dopo pandemia, con il 70% dei paesi monitorati che registrano tassi di crescita inferiori al pre covid.
Il Fondo avverte che questa dinamica è insostenibile nel medio periodo. Il problema, sottolinea il report, non è solo nelle dimensioni assolute del fenomeno, ma nella mancanza di spazio fiscale: quando il debito cresce più rapidamente del PIL, diventa sempre più difficile reagire a nuove crisi con strumenti di politica economica efficaci.
E allora, come si risolve questa situazione? Il Fondo Monetario prova ad indicare una strada costruttiva, dove i governi non si limitino a tagliare indiscriminatamente la spesa pubblica ma sappiano distinguere tra debito buono e debito cattivo. Trasformando l’indebitamento in una leva per la crescita. Il messaggio è racchiuso nel titolo del blog pubblicato dall’IMF stesso: “Spending smarter to boost growth”.
L’IMF ha analizzato la qualità della spesa pubblica in 174 economie — avanzate, emergenti e in via di sviluppo — e il risultato è sorprendente: in media, i governi potrebbero ottenere un terzo di valore in più dai soldi che già spendono, semplicemente migliorando l’efficienza. E se questo suona teorico, i numeri rendono l’idea: per le economie emergenti, un miglior uso delle risorse pubbliche potrebbe far crescere la produzione di circa l’11% nel lungo periodo; per i paesi avanzati, di circa il 4%. È il tipo di miglioramento che può fare la differenza tra un’economia stagnante e una che cresce in modo sostenuto.
Se un governo decidesse di spostare solo l’1% del PIL dalla spesa corrente (stipendi pubblici, consumi amministrativi, burocrazia) a investimenti in infrastrutture, la crescita a lungo termine aumenterebbe di circa 1,5% nelle economie avanzate e addirittura 3,5% nei paesi in via di sviluppo.
E non è tutto. Se quello stesso 1% venisse invece destinato al capitale umano – istruzione, formazione, competenze – l’impatto stimato sarebbe ancora maggiore: fino a +6% di crescita potenziale nei paesi emergenti, e circa +3% in quelli avanzati.
C’è poi un altro punto cruciale, spesso trascurato nei dibattiti sulla finanza pubblica: l’efficienza. Il Fondo calcola che migliorare l’efficienza della spesa pubblica di appena 10 punti percentuali — cioè ottenere di più a parità di risorse — porterebbe a un incremento dell’output di circa 1,4% nel lungo periodo.
Un numero che sembra piccolo, ma che in termini di crescita potenziale equivale a miliardi di dollari o euro ogni anno. Eppure, negli ultimi vent’anni, la spesa pubblica per investimenti produttivi (infrastrutture, capitale umano, ricerca) è diminuita di circa due punti percentuali sul totale della spesa pubblica globale. In altre parole, spendiamo sempre di più per mantenere il presente, e sempre meno per costruire il futuro.
“Spending smarter” non significa aprire i rubinetti, ma usare ogni risorsa pubblica come un seme — da piantare nei terreni giusti: istruzione, innovazione, infrastrutture, transizione green. È lì che si genera il dividendo della crescita.
Foto di Mimzy






