Nell’ultimo anno il dollaro statunitense ha mostrato un trend al ribasso rispetto a un paniere di valute internazionali. Alcuni dati chiave parlano di un calo di oltre il 10 % nel 2025 rispetto a valute come euro, sterlina e yen.
Le motivazioni dietro a questa tendenza sono molteplici. Annunci relativi a nuove tariffe, tensioni commerciali, politica monetaria e cambiamenti potenziali alla guida della Federal Reserve hanno accresciuto il nervosismo nei mercati e portato gli investitori a rivedere le proprie posizioni in valuta statunitense.
Un dollaro debole fa notizia di per sé. Ma l’argomento diventa ancora più interessante se attorno ad esso si crea un dibattito sul ruolo della moneta statunitense nello scenario finanziario internazionale e sulle conseguenze che potrebbe comportare un suo indebolimento “strutturale”.
Perchè un conto è quando una valuta si deprezza perchè cambiano aspetti nella struttura dei mercati finanziari. Un altro è se la debolezza è causata da una progressiva perdita di fiducia nell’economia che sta dietro a quella valuta.
Partiamo proprio da qui per parlare dell’intervento su VoxEU (“Ripples presaging a financial tsunami”) di Dennis Snower. L’autore – presidente di Global Solutions Initiative – mette in guardia da un rischio che va oltre le normali fluttuazioni valutarie: il progressivo logoramento della centralità del dollaro nel sistema finanziario internazionale.
Il ragionamento parte da un concetto chiave: gli effetti di rete. Il dollaro è diventato la valuta dominante non solo per la forza dell’economia americana, ma perché, col tempo, il suo uso è diventato auto-rinforzante: più operatori lo utilizzano per commerciare, investire, accumulare riserve, più diventa conveniente per tutti continuare a farlo. È lo stesso meccanismo che rende un social network più prezioso man mano che cresce il numero degli iscritti.
Snower però sottolinea che questi effetti di rete non sono eterni. Possono essere scalfiti gradualmente, fino a innescare quello che lui definisce un “momento tsunami”: piccole onde di cambiamento (ad esempio, l’uso crescente dello yuan in Asia, lo sviluppo di sistemi alternativi di pagamento, o la scelta di alcuni paesi di fatturare esportazioni in euro) possono accumularsi e generare un’onda d’urto globale.
Il rischio non è solo per gli Stati Uniti, che perderebbero uno dei principali vantaggi della loro egemonia economica (il cosiddetto exorbitant privilege, cioè la possibilità di finanziare i propri deficit in una valuta che tutti vogliono detenere). È un rischio per il sistema finanziario globale, perché la frammentazione valutaria aumenterebbe i costi di transazione, ridurrebbe la liquidità e creerebbe nuove linee di frattura geopolitica.
Snower usa una metafora forte: oggi vediamo increspature (ripples) sulla superficie, ma queste possono preannunciare un tsunami. I segnali già visibili sono:
- la crescita di accordi commerciali regionali che riducono l’uso del dollaro,
- l’espansione di sistemi di pagamento alternativi a SWIFT, spesso sostenuti da potenze emergenti,
- l’accumulo di riserve in valute diverse dal dollaro da parte di alcune banche centrali.
Una valuta che perde forza e stabilità rischia di apparire meno “affidabile” come bene rifugio, e questo alimenta la ricerca di alternative. È qui che l’analisi di Snower si inserisce nel dibattito: la vera questione non è solo se un dollaro debole sia un vantaggio o uno svantaggio congiunturale, ma se possa rappresentare l’inizio di un lento scivolamento del suo status di architrave del sistema monetario globale.
Foto di Andreas Lischka