Negli ultimi anni, l’intelligenza artificiale (IA) ha fatto irruzione nei mercati finanziari, promettendo efficienza, velocità e precisione. Ma cosa succede quando questi algoritmi imparano non solo a fare profitti, ma anche a “colludere” – cioè a coordinarsi tacitamente per mantenere i prezzi artificialmente elevati, riducendo la concorrenza e danneggiando l’efficienza del mercato?
Questa è la domanda che affronta uno studio condotto da Winston Wei Dou, Itay Goldstein e Yan Ji. Il lavoro, pubblicato qualche giorno fa dal National Bureau of Economic Research, indaga quella che potremmo chiamare il fenomeno della collusione algoritmica nel trading azionario. Si tratta di una fattispecie ancora non verificatasi nella realtà dei mercati finanziari, ma che è già nei pensieri degli organismi di vigilanza.
Il punto di partenza dello studio è la fusione tra due tecnologie ormai consolidate: il trading algoritmico e l’apprendimento per rinforzo (reinforcement learning). Gli autori mostrano che algoritmi autonomi, progettati per massimizzare i profitti, possono imparare a colludere senza alcuna programmazione esplicita, senza accordi tra loro e persino senza sapere che stanno colludendo. Come? Osservando i risultati delle proprie azioni e regolando il comportamento di conseguenza.
In parole semplici: ogni algoritmo apprende dal mercato come comportarsi in modo profittevole. In determinati contesti, “scopre” che è più vantaggioso non essere troppo aggressivo, perché anche gli altri fanno lo stesso. Questo porta a un comportamento tacitamente coordinato che, pur non essendo frutto di accordi, ha gli stessi effetti di un cartello: margini più alti per i pochi algoritmi coinvolti e peggioramento della liquidità e della qualità dei prezzi per tutti gli altri investitori.
Lo studio individua due meccanismi distinti alla base di questa collusione:
- Collusione da “intelligenza artificiale”: si verifica quando gli algoritmi imparano a osservare i movimenti di prezzo e a comportarsi in modo cooperativo, punendo i “traditori” che rompono il tacito accordo. Questo accade soprattutto quando il rumore di mercato è basso e vi sono abbastanza investitori insensibili alle informazioni.
- Collusione da “stupidità artificiale”: qui, gli algoritmi commettono un errore di apprendimento. Sovrastimano i rischi del trading aggressivo (per via delle perdite occasionali dovute al rumore) e smettono di usarlo, preferendo comportamenti conservativi. Anche se non colludono intenzionalmente, il risultato è lo stesso: meno concorrenza e profitti più alti per pochi.
La novità preoccupante è che nessuna delle due forme di collusione è attualmente sanzionabile secondo le leggi antitrust tradizionali. La normativa si basa infatti sulla presenza di accordi espliciti o comunicazioni tra parti, che qui non esistono. Eppure, il danno per il mercato è reale: liquidità ridotta, minore informativeness dei prezzi e maggiore mispricing.
Secondo gli autori, la collusione algoritmica può emergere in un’ampia gamma di condizioni di mercato e parametri tecnici. Anche piccoli cambiamenti nei livelli di rumore o nella composizione degli operatori possono fare la differenza tra un mercato concorrenziale e uno dominato da strategie collusive apprese autonomamente dalle macchine.
Insomma, lo studio che abbiamo appena raccontato prospetta uno scenario altamente sfidante per gli organi di vigilanza, indicando la necessità di nuove forme di controllo. Un nuovo schema di comportamento, nel quale bisogna entrare nel codice, nei meccanismi di apprendimento, nei dati storici con cui gli algoritmi si auto-addestrano. Un compito immane, ma necessario se si vuole preservare la trasparenza e la credibilità dei mercati finanziari.
Foto di Csaba Nagy